Cortesemente, dopo la scissione psichiatrica nel Pd, non date retta alle minacce di Matteo Uno contro Matteo Due (“Passerò i prossimi anni a combattere Salvini”), o agli insulti di Matteo Due contro Matteo Uno (“Da Renzi non mi aspetto dignità né ono re ”). Sono fatti l’uno per l’altro. POICHÉ DUBITIAMO che entrambi si siano formati sulle teorie di Carl Schmitt (la figura del nemico in politica come esigenza primaria), presumiamo che molto più banalmente la strana coppia avesse impellente bisogno di uno spot, tipo pubblicità comparativa: denigrare il concorrente per meglio promuoversi. I due Mattei si annusavano ammiccanti già dopo le elezioni del 2018 quando l’ex concorrente de La ruota della Fortuna p r emeva sull’ex comparsa de Il pranzo è servito per indurlo ad accettare senza indugio il governo con i grillini. Cosicché egli più agevolmente potesse sparargli contro (ingozzandosi di popcorn) e certificare così la propria esistenza in vita. Favore ricambiato il 20 agosto scorso al Senato, mentre il vicepremier leghista annaspava nella pozzanghera da lui stesso provocata (e sotto i colpi di Giuseppe Conte) ecco che il senatore di Scandicci rievocava una qualche insignificante cortesia dell’altro, nel momento in cui quello ad annaspare era lui. Anche se nei panni del debitore, Renzi dovrebbe restarci in eterno poiché senza il dissennato Salvini del Papeete Beach starebbe ancora a casuccia a morire di pizzichi. Abbastanza scontato poi accomunarli in ragione della hybris, l’arroganza da cui sono afflitti e con la quale ammorbano il Paese. La stessa prosopopea nel sentirsi infallibili, la stessa saccente, ridicola gravità nell’in fi occhettare di chissà quali valori la solita fame di potere. G emelli perfino nell’us o desolante della finta bonomia verso chi li avversa, introdotta da ll ’ex ministro degli Interni con i famosi “b a c i o ni ”, “vi abbraccio tutti”, “m o lt i nemici molto amore” (oddio). Copiata paro paro dall’ex premier (“a Zingaretti o Orlando o Franceschini mando un abbraccio, restiamo amici se vi va, ma anche se non vi va per noi non sarete mai nemici”). Fino al plagio supremo: “Ci riconoscerete dal sorriso, non dal rancore” ( a lmeno ci risparmia i bacetti al rosario). IL FATTO È CHE DIETRO questa patina finta e melensa di buoni sentimenti si nascondono dei professionisti della distruzione, dei demolitori provetti di ogni progetto di buon governo che confligga con la loro personale cupidigia. Sappiamo di Salvini che si bea ebbro delle folle di Pontida, autoconfinato in una triste opposizione. Incapace di elaborare una qualsiasi strategia che non sia lo stucchevole ritornello sulla “fame di poltrone” (degli altri s’inten – de) e la squallida speculazione sulle povere creature di Bibbiano. Per non essere da meno, il teorico della rottamazione si accanisce contro il proprio partito con una vendetta ritardata che alla fine si riduce a un pugno di parlamentari frastornati. Giusto per il gusto di tenere sotto ricatto il governo Conte, miracolosamente nato sotto il fuoco della destra più feroce, e che d’ora in avanti dovrà guardarsi dalla combutta Renzi-Salvini (il cui acronimo è appunto: ReSa). L’augurio è che l’umore degli italiani (che per fortuna non sono soltanto quelli che urlano “ebreo”a Gad Lerner) non sia più tale da tollerare gli azzardati giochini della ditta sfasciacarrozze. Forse lo spirito del tempo è cambiato. Forse si ha davvero voglia di persone serie.
So che l’idea non piacerà affatto a Stefania Craxi, ex parlamentare di Forza Italia, ma soprattutto figlia di Bettino. Ma il progetto politico che ha in testa Matteo Renzi si riassume in tré parole: Ghino di Tacco, ovvero lo pseudonimo usato dallo scomparso segretario del Psi per i suoi editoriali sull’Auanti. Non so perché l’esponente socialista si fosse scelta quella strana firma, forse perché gli piaceva l’idea di un Robin Hood che esigeva il pedaggio dai vescovi diretti a Roma. O forse perché, stretto tra De e Pci, si sentiva proprio come quell’imbattibile guerriero, schiacciato tra Stato pontificio e Repubblica di Siena. Sta di fatto che Ghino di Tacco, più noto corne il brigante di Radicofani, rapinava chiunque passasse nei pressi del suo torrione. Ecco, Renzi vuoi fare lo stesso. Non gli importa quanto avrà il suo parti- tino. Se il 3 per cento come immagina il sondaggista di Youirend o il 5 per cento come dice Alessandra Ghisleri: gli interessa solo di farlo fruttare e di prendersi più posti possibili. L’ex segretario del Pd, che ora se ne vuole andare dal Pd portandosi dietro una pattuglia di deputati e senatori, vuole essere riconosciuto ufficialmente come azionista del governo che ha contribuito a fondare, E come tale si vuole pappare una fetta di utili. Che poi in politica non sono i soldoni che pretendeva il brigante di Radicofani dai prelati in viaggio con l’obolo da versare al Papa, ma il potere: cioè poltrone da riservare a uomini di provata obbedienza al Giglio magico. La telefonata che Renzi ha fatto l’altra sera al presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, non è stata di cortesia. L’ex premier ha chiamato il premier in carica non per salutarlo, augurargli buon lavoro e giurargli fedeltà anche fuori dal Pd. No, quella conversazione era semplicemente un avviso al capo del governo: occhio che da ora in poi devi trattare con me e non con Nicola Zingaretti, perché è da qui, da una Pontassieve che somiglia molto al torrione di Radicofani, che devi passare se vuoi andare avanti. Naturalmente, come è nel suo stile, Renzi ha ammantato la decisione di uscire dal Pd di parole dolci come il miele: «C’è un futuro bellissimo». M a grattando via il dolcificante si comprende che cosa ha in serbo. Per capirlo è sufficiente rileggere due righe in cui l’exsegretario spiega che ad andare con lui nel nuovo partito sarà appena una trentina di parlamentari. «Non dico che c’è un numero chiuso, ma quasi». Ovvio, Renzi non ha bisogno di portarsi dietro tutti i renziani con cui ha gonfiato le liste elettorali nel 2018: ne prende un po’, tanto per raggiungere il numero che gli serve a tare gruppo e a sedersi al tavolo delle trattative a Palazzo Chigi. Gli altri li lascia in eredità a Zingaretti, a fare danni dentro il Pd. Anzi, per essere più precisi, a tenere in ostaggio il poveretto che ha preso il suo posto alla guida del partito. 11 governatore del Lazio si è fatto infinocchiare con la storia del governo di salute pubblica, fatto per stoppare Matteo Salvini e l’aumento dell’Iva, e una volta caduto nella trappola, paga dazio al signorotto di Radicofani. Pardon, di Pontassieve. Già, perché al Senato Zingaretti avrà un capogruppo che invece di rispondere a lui risponde direttamente a Renzi e alla Camera il flebile Graziano Deirio non riuscirà certo a opporsi al fuoriuscito. Risultato, oltre a controllare direttamente il suo parlilo, trattando da leader e non da senatore semplice di Scandicci, Renzi avrà in pugno le redini pure del Pd: un capolavoro di furbizia che soltanto un allocco poteva non immaginare. Ma il Pinocchio di Rignano non ha fatto secco solo il segretario del Pd. Dell’inganno sono rimasti vittima almeno altri tré. Il primo è certamente Giuseppe Conte, il quale era convinto di averla scampata bella e di essersi finalmente liberato di quel matto di Mat- teo Salvini. Invece, adesso, è alle prese con un altro matto, che perdi più nell’ambiente è conosciuto per non fare prigionieri. Se Chino di Tacco tagliò la testa al giudice Benin- casa, c’è da aspettarsi che prima o poi Renzi la tagli a chi gli fa ombra e l’avvocato del popolo di ombra all’ex premier ne fa parecchia. Tra gli allocchi c’è poi di sicuro anche Beppe Grillo, che era convinto di aver Eatto l’affare della vita a stringere un patto con Zingaretti e adesso al suo posto si ritrova «l’ebetino di Firenze», il giovane vecchio che non voleva neppure ascoltare perché rappresentava i poteri marci. Ora, a ridere, non sarà più il vecchio comico, ma Renzi, che si godrà lo spettacolo di un ritorno a Canossa. Pardon, a Radicotani-Pontassieve. Da ultimo, tra i gabbati, ci abbiamo messo Luigi Di Maio, che l’accordo con il Pd non lo voleva fare perché temeva l’abbraccio con Zingaretti. D’ora in poi gli. abbracci li dovrà riservare all’uomo che credeva di aver battuto e ogni volta dovrà augurarsi che l’abbraccio non sia mortale, Infine, a essere fatti fessi sono anche gli italiani, che credevano di aver sconfitto Renzi nel 2016, al referendum, e poi alle amministrative e infine alle politiche. Ma uscito dalla porta, Ghino-ren- zino è sempre rientrato dalla finestra e adesso si è seduto a tavola, pronto a spartirsi la torta. Oggi dunque ride, ma il signorotto di Pontassieve dovrebbe ricordare che, dopo alterne vicende, la storia di Radicofani non finì bene.
O perazione chiarezza. Può piacere o non piacere la scissione renziana, però denuncia un problema identitario dentro il Pd e nel centro-sinistra che esiste da tempo e che nessuno ha avuto il coraggio o la capacità di sciogliere davvero. Ossia la compressione, fino alla strozzatura, di quella cultura liberal-riformista, che in parte (minoritaria) appartiene pure a certa sinistra ma soprattutto vive in un’opinione pubblica trasversale, post-ideologica e innovatrice senza etichette.
Un’opinione pubblica che si è riconosciuta a tratti in Forza Italia e in formazioni più piccole come quelle dell’universo radicale e cerca ancora spazio e rappresentanza vera. Naufragato il progetto berlusconiano, negli anni ruggenti del renzismo sembrava che questo lievito liberal-riformista potesse far crescere il Pd, liberandolo dalle catene del passato e riuscendogli a dare una fisionomia non più riconducibile alla sinistra tradizionale. Insomma, s’è creduto che l’egemonia degli ex Pci nel partito democratico potesse venire mitigata o addirittura superata grazie all’innesto di una cultura più innovativa e autenticamente liberale. La missione originaria di Renzi è stata quella di de-comunistizzare il Pd, operazione che pareva riuscita – la rottamazione, la battaglia contro la Ditta a questo servirono – e invece, purtroppo, no. Dopo la fine del governo Renzi e la decantazione del governo Gentiloni, il timone del Pd è andato di nuovo nelle mani degli ex Ds che sembravano battuti. Ciò ha comportato un rimpicciolimento del partito alle ultime elezioni politiche e una lieve tenuta nei successivi appuntamenti con le urne delle Europee e delle Amministrative. Lungo questo tragitto, non s’è sciolto l’equivoco di fondo: quanto possono convivere, nello stesso partito, due culture spesso antitetiche e due approcci diversissimi alle cose del mondo come sono quelli del liberalismo e quelli di un laburismo più o meno adattato ai tempi, che si vanta di venire da lontano con tutte le pesantezze ereditate compresa Bandiera rossa cantata alla festa dell’Unità? L’operazione Renzi va a incidere sull’identità politica del Pd e aspira a risolverne la contraddizione. E quando lui parla di un «ritorno al futuro» sembra evocare il 2007 e voler scogliere il matrimonio che allora si celebrò tra Ds e Margherita. Se guardiamo il bicchiere mezzo pieno, si può dire che Renzi compie un esercizio maieutico. Consente ai simili di restare con i simili, staccando i dissimili. Ma c’è da chiedersi: può riuscire oggi questa operazione chiarezza che in passato è naufragata? Oppure verrà schiacciata tra la nuova sinistra bifronte (comprensiva del grillismo) e il populismo estremo di Salvini? La partita che era a due ora diventa – se il progetto renziano prende piede – un match a tre. E tra scomposizioni e eventuali ricomposizioni, si potrebbe delineare questo scenario: da una parte il fronte Salvini-Meloni-Toti più un pezzo di Forza Italia; dall’altra parte lo schieramento dem tra Zingaretti, Franceschini, con il ritorno di Bersani e D’Alema e l’universo grillino in movimento a sinistra (anche sui territori); e nel mezzo un’area ancora da configurarsi in cui possono convivere Renzi, Calenda, Più Europa e pezzi di centrodestra moderato. C’è dunque uno spazio centrale, non centrista, che va coltivato e cucito (ma occhio ai personalismi, alla politica del narcisismo e dell’ego della bilancia) nelle sue varie articolazioni. La razionalizzazione del quadro politico potrebbe così essere l’effetto della scossa renziana. E un potenziale antidoto – europeista ma nel senso non asfittico e iper-rigorista della parola, sviluppista e modernizzatore da società aperta – rispetto al revival della dicotomia destra-sinistra, che rischia tra salvinismo e anti-salvinismo di bloccare l’Italia nei vecchi schemi rispolverati. I difetti di conduzione politica di Renzi sono noti (e non banalizzabili a una questione di carattere personale) e se lui avrà ragione o torto nell’iniziativa che ha preso si saprà presto. E lo dirà la vastità o l’esiguità del campo che riuscirà a mettere insieme.
L’ uno-due di Renzi, che prima ha imposto al Pd l’alleanza con i Cinque Stelle, e un istante dopo lo ha abbandonato al suo destino per farsi un partito tutto suo, non ha precedenti nella storia d’Italia. Come non ha precedenti, a dispetto della tradizione trasformistica dei parlamentari italiani, un simile capovolgimento. Fino a ieri i Cinque Stelle erano giustizialismo, assistenzialismo e decrescita infelice, oggi sono la salvezza dell’Italia contro la calatadegliHyksos.
Ieri ci si batteva per un sistema elettorale che permettesse, la sera delle elezioni, di sapere chi ha vinto, ora si dichiara di essere pronti a un ritorno al sistema proporzionale «se lo prevede l’accordo di governo». Se il livello di spregiudicatezza raggiunto da Renzi (e non solo da lui nel Pd) è inedito, lo stesso non si può dire per il metodo. Anzi, forse è il caso di sottolineare la continuità fra il comportamento odierno di Renzi e la storia della sinistra italiana negli ultimi 100 anni. Se ci volgiamo all’indietro non possiamo non ricordare che la scissione, ovvero l’uscita dal partito principale per creare un nuovo partito, è sempre stato il modo in cui, a sinistra, si sono affrontate le divergenze politiche. Il Partito Comunista è nato, il 21 gennaio del 1921, da una scissione guidata dall’ala sinistra del Partito Socialista, ansiosa di instaurare anche in Italia la “dittatura del proletariato”, seguendo le orme dei bolscevichi in Russia. Dopo di allora di partiti socialisti e pseudo-socialisti se ne sono visti parecchi, fra fusioni e ricomposizioni (ricordate il Psi, il Psdi, il Psu, lo Psiup?), e lo stesso Partito Comunista si è diviso più volte, anche se conmodalità diverse. Nel 1969 sarà il partito stesso a radiare il gruppo del Manifesto, guidato da Rossana Rossanda e Luigi Pintor. Nel 1991, invece, saranno la “svolta della Bolognina” di Occhetto e il cambio del nome (da partito Comunista a Partito della Sinistra) a provocare la nascita di Rifondazione Comunista.Ma non era finita. Sia il ramo principale della sinistra, sia le correnti nostalgiche del comunismo, di scissioni e ricomposizioni ce ne regaleranno ancora innumerevoli, in un tripudio di alchimie, sigle e ridenominazioni: Pds, Ds, Pd, Asinello, DL,Margherita, Ulivo, Unione, Sinistra Arcobaleno, Rivoluzione civile, Potere al popolo, giusto per ricordare le prime che mi vengono inmente. Dunque, collocata su questo sfondo, la scissione di Renzi non dovrebbe stupire nessuno. Scindersi e ricomporsi è lo sport preferito dei politici di sinistra, e la sola differenza importante con il passato è che un tempo le scissioni, per quanto favorite da disegni di potere e ambizioni personali, erano politicamente comprensibili. Tutti capivamo le ragioni che conducevano Achille Occhetto a ripudiare il comunismo, come capivamo quelle che inducevano Cossutta a rimpiangerlo. Così come, vent’anni prima, avevamo capito su che cosa quelli delManifesto litigavano con i dirigenti del vecchio Pci, e perché ne venivano cacciati via. E ancora poco tempo fa, sia pure a fatica, riuscivamo a capire le ragioni di D’Alema e Bersani per uscire dal Pd. Nessuno, invece, è oggi in grado di capire che cosa costringa Renzi ad abbandonare il Pd, dopo aver spinto Zingaretti nelle braccia di Grillo. Riuscirà, Renzi, nell’intento di rimodellare la sinistra? È ragionevole aspettarsi che, accanto ai Cinque Stelle e al Pd (riunificato con i transfughi di Leu), sorga un moderno partito liberal-riformista, che non si limiti a vietare “Bandiera rossa” alle feste di partito? Penso che molto dipenderà dal sistema elettorale ma che, anche con un sistema proporzionale, l’impresa sarà difficile. E questo non solo perché, diversamente dal passato, questa volta la sostanza politica della scissione è invisibile, ma anche per un’altra ragione, che ha a che fare con la formamentis del popolo di sinistra. Proprio perché viene da una lunga e dolorosa storia di divisioni e di scissioni, l’elettorato di sinistra ha maturato nel tempo una profonda idiosincrasia per i “cespugli” che di volta in volta hanno provato a gravitare intorno al partito principale. Una idiosincrasia che lo ha portato a dare poco credito al progetto radicale di “rifondare il comunismo”,ma anche a tributare un consenso limitato e perlopiù effimero ai rari esperimenti di partito personale che si sono succeduti nella seconda Repubblica: “La Rete” di Leoluca Orlando (1991), “Rinnovamento Italiano” di Lamberto Dini (1996), “L’Italia dei Valori” di Di Pietro (1998), “Scelta Civica” di Mario Monti (2013). Tutti partiti che hanno ballato per una o due stagioni elettorali, e solo in un caso (quello della meteoraMario Monti) sono riusciti a superare la soglia del 5% dei consensi. Il destino del partito di Renzi può essere diverso? Credo che la risposta sia che avrebbe potuto essere diverso, e che Renzi, guardando al proprio passato politico, non possa che rimpiangere, come Guido Gozzano, “le rose che non colsi”. Se avesse fondato un partito quando il vecchio establishment del Pd tentava in ogni modo di sbarrargli il passo, e il profilo innovatore, riformista e liberale dello sfidante erano chiari a tutti, il progetto di affiancare agli ex comunisti una forza di sinistra giovane, dinamica emoderna, qualche chance di successo l’avrebbe avuta. Perché Renzi all’apice del suo successo era un catalizzatore di speranze (parlo anche per esperienza personale), mentre ora è un enigmatico collettore di delusioni, se non di rancori. Fondare un partito personale di successo non è impossibile (Berlusconi docet), ma la scelta dei tempi e dei contenuti è cruciale. Il problema è che i tempi sono sbagliati (perché la popolarità di Renzi è ai minimi, persino inferiore a quella del Berlusconi attuale) e i contenuti sono spiazzanti. Profondamente spiazzanti. Il fatto è che, comunque lo si giudichi, il marchio Renzi è associato al binomio Jobs Act più Mare Nostrum (accoglienza dei naufraghi). Esattamente il contrario di quel che predicano i Cinque Stelle, che hanno contestato ferocemente tanto il Jobs Act (con il decreto dignità) quanto l’operazione Mare Nostrum (con le Ong definite “taxi del mare”). È certamente possibile che vi sia, nell’elettorato di sinistra, un segmento che apprezza il Jobs Act ed è orgogliosa delle politiche di accoglienza del triennio renziano. Ma è difficile immaginare che, proprio perché crede nel vecchio marchio-Renzi, non si faccia la domanda cruciale: se i Cinque Stelle rappresentano l’esatto contrario del renzismo, perché mai dovremmo dare il voto a chi li ha sdoganati?
L a nascita del nuovo partito di Renzi, «Italia viva», ha provocato un mezzo terremoto politico. Anche se tutti, in serata, tendevano a minimizzare, la nota ufficialmente preoccupata con cui il presidente del consiglio Conte ha accolto la novità basta già a capire il timore di un’ulteriore fase di instabilità, dopo la folle crisi d’agosto che ha portato a un capovolgimento di alleanze e di ruoli, a fatica ancora puntellato da Palazzo Chigi. E una certa tensione si percepiva in casa 5 stelle, con la pronta convocazione di un’assemblea di eletti. Chiarissima è la ragione per cui queste preoccupazioni già si coglievano al mattino, quando Renzi ha annunciato la sua decisione di uscire dal Pd in un’intervista a «La Repubblica», e si sono accentuate nel pomeriggio, quando prima di entrare nello studio di «Porta a porta» ha comunicato il nome della sua creatura sorseggiando un aperitivo al bar con Bruno Vespa.
Sebbene l’ex-premier e ex-leader del Pd si sforzi in pubblico di rassicurare tutti, prometta che si occuperà di giovani e di futuro, non rivendichi poltrone, s’è capito perfettamente cosa ha in testa. Con una quarantina di parlamentari, di cui quindici senatori indispensabili per avere una maggioranza al Senato, Renzi non ha alcun bisogno di chiedere nulla a nessuno. Deve solo aspettare che lo chiamino, lo consultino, lo accarezzino, e gli chiedano il permesso per fare qualsiasi cosa. Il messaggio è rivolto al Pd, nei confronti del quale il senatore di Firenze dichiara di non aver alcun rancore, ma verso cui cova ancora il risentimento per le umiliazioni subite dopo la sconfitta al referendum del 2016 e il crollo successivo nelle elezioni del 2018. Ma anche ai 5 stelle, e segnatamente a Di Maio, con cui ha raccontato di aver parlato per la prima volta al telefono due sere fa, un disgelo tra vecchi avversari e da oggi in poi uomini destinati a capirsi. Non sarà neppure necessario che Renzi rivendichi una sedia al tavolo della nuova maggioranza giallo-rossa dove finora erano seduti il capo politico pentastellato e il segretario del Pd. Avendo in odio le liturgie tradizionali, i vertici, le correnti, le verifiche e ciò contro cui, in tempi che sembrano più lontani di quanto dica il calendario, si era battuto nell’epoca della rottamazione, cercherà in ogni modo di starne lontano. Farà il prezioso, aspetterà che il governo decida se davvero è venuto il momento di tornare al sistema proporzionale, in funzione anti-Salvini, e poi calerà le sue carte. Perché il proporzionale è il luogo della partitocrazia, in cui i due schieramenti di centrodestra e centrosinistra dominatori, seppure con qualche acciacco, dell’ultimo quarto di secolo, saranno destinati a sparire e si avvierà una completa scomposizione del quadro attuale. Si vedrà allora se i quaranta di Renzi sono destinati a crescere, allargando i confini di «Italia viva» a destra oltre che a sinistra, e soprattutto se nel frattempo il leader che alle Europee di cinque anni fa era riuscito a portare il Pd al quasi 41 per cento avrà riconquistato credibilità tra gli elettori, che adesso nei sondaggi lo collocano a fondo classifica. Se insomma, definitivamente stanchi del panorama politico dominato da pulsioni radicali, insulti, minacce e da un’obiettiva incapacità a governare il Paese, gli italiani, o quella parte di loro fondamentalmente democristiana nell’animo, al di là di tutte le disillusioni degli ultimi anni, sceglieranno di rivolgersi di nuovo al centro e puntare su un’area moderata. Al momento, va detto, è una scommessa. E non è affatto detto che sia una soluzione, e che Renzi possa incarnarla fino in fondo. Nel frattempo, con quei 15 senatori che hanno scelto di seguirlo, e con i 25 deputati (in realtà anche di più, dal momento che tanti sono in bilico e i biglietti di ingresso nel nuovo partito non sono ancora disponibili), Renzi potrà divertirsi a tenere il governo sul filo. Non è bello, non è giusto, dopo aver contribuito a costruirlo ad agosto, non è neppure una gran prospettiva. Ma in politica, si sa: la vendetta è un piatto che si mangia freddo.
Al netto di giudizi e pregiudizi, il successo dell’iniziativa renziana sembra dipendere da tre aspetti tutti da verificare. Primo, la capacità di parlare a un’Italia definita, quella del ceto medio tartassato e frustrato che ha ingrossato finora le file della Lega salviniana e in parte dei 5S. Secondo, l’abilità di attrarre un numero di parlamentari più consistente delle ipotesi riduttive apparse sui giornali, frantumando le barriere e mettendo gli uni accanto agli altri esponenti ex Pd, fuoriusciti di Forza Italia e magari figure provenienti da gruppi minoritari: non solo presenze simboliche bensì significative di un processo in atto. Terzo, riuscire a scollarsi di dosso il sospetto che tutto si esaurisca in un ricatto quotidiano al governo Conte per ricavarne spazi di potere da gestire in prima persona e non come minoranza del Pd. Meglio primo in un villaggio che secondo a Roma, diceva Giulio Cesare: un paragone certo gradito a Renzi. Il primo punto è decisivo, ma anche il più complicato. Il fiorentino è un tattico abile nel gioco di palazzo, assai meno — nonostante le apparenze — quando si tratta di entrare in sintonia con l’opinione pubblica. Ne sono testimonianza le numerose sconfitte elettorali fino al fatidico referendum del dicembre 2016 (con l’eccezione, s’intende, del citatissimo trionfo nelle europee del 2014). Il meno che si possa dire è che nel suo periodo d’oro Renzi non è riuscito a farsi davvero interprete del ceto medio; non ne ha colto la sofferenza o, se lo ha fatto, non ha saputo trovare la cura giusta. Ora dovrà colmare in fretta la lacuna. A giudicare dalle prime dichiarazioni come scismatico — a cominciare dalla lunga intervista a Repubblica — le sue idee non sono ancora chiare. Forse riserva le munizioni per l’appuntamento della Leopolda, tuttavia non si tratta di elencare dei buoni propositi quanto di parlare a un Paese disorientato con un linguaggio convincente. Il che, tra l’altro, equivale a spiegare le ragioni della rottura. Al momento, dire «là fuori c’è un futuro bellissimo, andiamo a prenderlo» significa ripetere il dannunziano «vado verso la vita». Frase memorabile, ma che allora, sul finire dell’Ottocento, fu l’espediente retorico con cui il poeta deputato illustrò il suo passaggio repentino e poco fortunato dalla destra alla sinistra. Che tra l’altro per lui erano categorie superate. Il secondo punto riguarda la consistenza della pattuglia parlamentare. Mara Carfagna, invece di affrettare una scissione parallela in Forza Italia, ha colto l’occasione per rilanciare un dibattito interno sul destino del centrodestra. Vedremo. Per adesso sembra che si voglia procedere a passo lento ed è comprensibile. Quanto al rapporto con il governo, è logico che Renzi non voglia mettere in crisi Conte e per una ragione precisa: tutto può volere lo scissionista tranne le elezioni anticipate. Ha bisogno di tempo. Il che non esclude una dose di guerriglia verso i giallo-rossi, ma senza superare la soglia di guardia. Piuttosto Renzi deve sperare che si proceda in fretta alla riforma proporzionale, se possibile senza sbarramento o con un quorum basso. L’ex leader del maggioritario oggi non può fare a meno di una legge che salvi i piccoli partiti. Quindi se Franceschini e Zingaretti vogliono tenerlo sulla corda, hanno solo da procrastinare la riforma elettorale. Tra un’ambiguità e l’altra.
Il big bang che si annunciava nel sistema politico italiano è appena incominciato. Matteo Renzi ha dirottato il Pd dalla guerra ai Cinquestelle, di cui era uno dei generali, al patto di governo con Di Maio, di cui è stato l’inventore. Appena nato quel governo, col travaglio immaginabile per un partito capovolto, l’ex presidente del Consiglio ha annunciato che lascia il Pd, per fondare un suo movimento. Nasce dunque il partito di Renzi, minacciato e negato per mesi, sempre sottotraccia nelle ultime vicende politiche del Paese, un’ombra costante che accompagnava ogni passo del Pd. Un’operazione che cambierà il profilo del governo e in qualche misura della sinistra e dell’intero quadro politico. Per ora, il leader ha promesso lealtà al premier Conte, ma è evidente che da oggi ogni decisione dell’esecutivo si divide per tre mentre si triplicano veti, quote, dosaggi, autorizzazioni.
La sinistra riprecipita nell’incubo della scissione, la sua condanna eterna, come se fosse incapace di cogliere, persino nella crisi che le democrazie stanno vivendo, una ragione sufficiente per credere in se stessa come forza alternativa, di tutela e di cambiamento. La politica trova il suo terzo angolo, aperto verso il quarto, dove abita la destra moderata. Mentre il quinto angolo, il più inquietante, è occupato interamente dall’estremismo di destra, nazionalista e sovrano, che minaccia la nostra epoca: senza scissioni. In un paesaggio nazionale in cui tutti i partiti sono nati mercoledì scorso, le culture politiche non hanno tempo di attecchire e nessun disegno di società dura così a lungo da essere condiviso al punto da formare una comunità. Il campo parlamentare sembra un brefotrofio, senza padri capaci di testimoniare la vicenda repubblicana nel suo divenire, privo di lari e penati, dunque di tradizioni e di storia. Non è dunque uno scandalo che nasca un nuovo partito, e tantomeno è una sorpresa il partito di Renzi, dopo l’ultima fase di convivenza nel Pd da separati in casa. L’ex premier, nell’intervista a Repubblica, lamenta un disagio esistenziale, sentendosi percepito dal Pd come un “intruso” o un “abusivo” — e in parte ha ragione — ma nello stesso tempo continua a chiamare gli ex comunisti “la ditta”, cioè una specie di azienda politica a sé stante, anch’essa dunque abusiva, con una produzione politica irregolare. La verità è che Renzi non riesce a essere “parte” del Pd, può essere soltanto tutto (come quando ha vinto le primarie da segretario), oppure niente, come oggi. Questo per il modo di interpretare il concetto di leadership, che secondo lui si esercita solo nel comando diretto, e non nell’influenza e nella testimonianza culturale, e soprattutto per il modo di intendere la politica e la missione del partito: innovatore ma centrista, spregiudicato ma moderato, istintivo e insofferente della tradizione, Renzi si è conquistato la guida della sinistra italiana più come un’occasione che una vocazione. Il taxi del Pd lo ha portato rapidamente a Palazzo Chigi. Quando è uscito dal governo, dopo l’esplosione di consenso alle elezioni europee e la rovinosa sconfitta nel referendum, è di fatto sceso anche dal taxi del partito. Qui è incominciato un gioco reciproco di sospetti e di interdizione: il nuovo gruppo dirigente voleva scrollarsi di dosso il peso di quella personalità ingombrante, come avviene sempre dopo una disfatta, spingendola ai margini per cercare spazio e autonomia. Renzi al contrario snobbava l’agenda, i riti e le gerarchie del partito, e usava la kryptonite che portava in tasca per delegittimare ogni tentativo di nuova leadership nascente. Il risultato è stato per mesi quello di un partito interdetto da se stesso, ostaggio delle dinamiche interne, sospettoso, frenato: impedito. Fino alla fiammata estemporanea (con una miccia accesa da tempo da Franceschini) del leader toscano nell’ultima crisi di governo, quando con un voltafaccia improvviso e un intuito preciso si è infilato nella crepa tra Salvini e Di Maio, ha sfruttato la forzatura leghista e ha portato tutto il Pd a cambiare linea alleandosi con i Cinquestelle. In questo episodio c’è il ritratto politico di Renzi: istinto, sfrontatezza, azzardo, sovvertimento, movimentismo, estemporaneità. Un leader ambizioso e insofferente, che pretende di fondare un nuovo ordine ma presume di farlo attraverso colpi di mano successivi piuttosto che con un tracciato culturale che scavi nel profondo. Con un orizzonte politico definito solo da categorie metapolitiche, perché refrattario alla distinzione occidentale tra destra e sinistra: ancora ieri, nell’intervista al nostro giornale, Renzi si preoccupa per prima cosa di avvertire che «la cosa nuova non sarà di centro o di sinistra», ma «occuperà lo spazio del futuro». Questo perimetro ideale sarà venduto come una prova d’innovazione: mentre evidentemente è stato causa di tensione tra la leadership renziana e il corpo del Pd, che a grande maggioranza ha fatto una scelta di sinistra riformista, tanto che lo stesso Renzi da segretario ha trovato ovvio e naturale trasferire questa scelta in Europa, portando il partito dentro il gruppo dei socialisti e democratici europei. Nasce dunque un partito democristiano nella centralità geografica che vuole occupare, radicale nel metodo e nel carattere, futurista nella retorica. Un mix vulcanico, irregolare, post-ideologico ma col culto del Capo, flessibile fino alla sorpresa, fedele fino alla morte, dunque tagliato come un vestito su misura di Renzi: una specie di corrente trasformata in partito, sollecitata in permanenza, pronta a ogni incursione, disponibile ai rovesciamenti di fronte, agente permanente di sommovimento. Una forza, si potrebbe dire, a vocazione minoritaria ma con la tentazione solitaria di rompere gli equilibri, ogni volta che sia necessario per l’esercizio della leadership. Per il momento, Renzi è già al governo, con le ministre Bellanova e Bonetti, e dunque promette quiete a Conte, poi si vedrà. Così, con un doppio movimento che cambia la politica dal giorno alla notte, i grillini si trovano senza nemmeno saperlo a condividere un’alleanza con il partito di Renzi, che avevano trasformato in bersaglio per anni. Si capisce che il quadro diventi instabile. Zingaretti, che stava prendendo le misure all’improvvisa resurrezione di governo del Pd, si trova stretto tra Franceschini come nuova forza egemone interna, e Renzi come forza sfidante esterna. Ha saputo manovrare silenziosamente in questi mesi, tanto che la scissione non provocherà una ferita grave nei numeri. Ma la ferita è pesante politicamente, perché colpisce al cuore il carattere del Pd come partito largo che copre da solo tutta l’area di centrosinistra, coincidendo di fatto con la superficie del riformismo italiano. È singolare che questo attacco alla cultura fondante del Pd venga da un suo ex segretario. In questo senso vale per Renzi esattamente quel che valeva per D’Alema e Bersani all’epoca di un’altra sciagurata scissione: chi ha avuto l’onore di guidare la sinistra italiana dovrebbe sentire il dovere, quando va in minoranza, di affermare le sue idee custodendo insieme l’idea costitutiva del partito, senza andarsene perché ha perso il comando. Ma la cronaca dice tutt’altro, e ci dobbiamo aspettare nuove scosse. Salvini punta a spaccare i Cinquestelle lungo la dorsale destra/sinistra che Di Maio continua a negare senza vedere la frattura che lo minaccia. Berlusconi è addirittura davanti a una scelta esistenziale tra il Ppe e il sovranismo. La sinistra radicale è al bivio eterno tra il rientro nel Pd e una nuova “costituente”. I democratici non sanno ancora che forma prenderà l’alleanza con i grillini. Conte cura il suo patrimonio di consensi pensando a dove conviene portarlo prima o poi all’incasso. Adesso arriva Renzi, sfavorito dal buio dei sondaggi, eccitato dal ritorno dei riflettori. Qualche anno fa, quand’era sindaco a Firenze, rispose così a una ragazza che lo invitava a lasciare il “ferrovecchio del Pd”: «Se mai capitasse di arrivare a palazzo Chigi, sarebbe ben diverso andarci da capo della sinistra italiana, o da passante che ha trovato per caso il biglietto della lotteria». Adesso, ha perso la sinistra e il biglietto, sperando di ritrovare se stesso. Che dire? Auguri.
C’è Conte nel mirino di Renzi e c’è il posto di Conte nei sogni di Renzi: i due obiettivi sono l’alfa e l’omega di un progettoalungo termine — non si sa quanto realizzabile o velleitario — che punta alraggiungimento di «quota 10%», mira alla conquista del centro e prevede la sconfitta degli altri contendenti. Compreso ovviamente l’attuale premier. D’altronde il leader di Italia viva ritiene che il «governo Mattarella» — così lo definisce con una punta di sarcasmo — non durerà fino all’elezione del capo dello Stato: infatti ieri non ha parlato dell’orizzonte temporale del governo ma solo di quello della legislatura, che «per me arriverà al 2023». In mezzoaquesto sottile ma fondamentale distinguo ci sono alcuni passaggi, comprese le Regionali che si susseguiranno fino in primavera: secondo Renzi l’idea che Pd e M5S si alleino è «rischiosa» per gli equilibri interni delle due forze, e soprattutto espone l’esecutivo. Ecco dove scorge il baco. Ecco perché Franceschini considera la scissione «a big problem» per il governo. Ma per ora Renzi può solo limitarsi a previsioni al limite della suggestione, che si scontrano con la realtà dei numeri. Se non intende misurarsi in questi test elettorali, c’è un motivo: i sondaggi sono troppo bassi e un risultato striminzito comprometterebbe l’intera operazione. Per rafforzarsi avrà bisogno di tempo e di visibilità, e Conte ha compreso come proverà a ottenerla: entrando in conflitto col governo e in competizione con i Cinque Stelle, lasciando al Pd il faticoso compito di mediare. D’altronde se Renzi non lo facesse si ridurrebbe al ruolo di junior partner, una sorta di Leu in versione centrista. «Solo che iniziando ad appiccare incendi — paventa un ministro dem — c’è il rischio che esploda tutto, perché i grillini non sono democristiani e Di Maio non è Rumor». Vero, come però è vero che né Pd né M5S hanno alternative al completamento della legislatura. Ed è su questo che l’ex premier fa affidamento, puntando a ingrossare le file di Italia Viva con «un po’ di persone di Forza Italia che non vogliono morire leghiste» e con esponenti ed elettori dem che «verranno con noi appena vedranno D’Alema e Bersani». Il tema del «ritorno della ditta» agita sul territorio la componente del Pd che non proviene dal ceppo comunista, mentre a livello nazionale inizia a montare il malcontento per come la segreteria ha gestito la trattativa di governo, per i «troppi posti» assegnati ai renziani «pur sapendo che Matteo avrebbe strappato». Bastava sentire ieri il contropelo del capogruppo Delrio: «La scissione resta una sconfitta per tutti, sebbene sia una decisione incomprensibile». In realtà era inevitabile, perché Renzi non sopportava più di sentirsi leader senza poterlo essere, e perché sapeva che alle prossime elezioni «avrebbero fatto terra bruciata attorno a me». È sul timing che ha cambiato idea più volte, così come ha cambiato quattro volte il nome della sua creatura. Dalla scomparsa della Dc si contano 25 progetti centristi, alcuni assorbiti nei due poli, altri scomparsi, tutti comunque falliti. Italia viva sarà il ventiseiesimo esperimento, che stavolta dovrebbe contare su una legge elettorale proporzionale. Ora, a parte il fatto che l’esito non è scontato, la fila degli avversari di Renzi è così lunga che nel Pd confidano di trovare in Parlamento molti alleati per tenere alta la soglia di sbarramento. È un’ipotesi che Conte non contrasta e che testimonia come la separazione non sia affatto «consensuale».
Matteo Salvini ringrazia. Per il leader della Lega, l’uscita dal Pd della pattuglia di Matteo Renzi è un regalo provvidenziale. Gli permette di additare la maggioranza tra il partito di Nicola Zingaretti e il Movimento Cinque Stelle come una costruzione già traballante; e di provocare il neoministro degli esteri grillino, Luigi Di Maio, sapendo che è l’anello debole dell’esecutivo. Ma soprattutto, la lacerazione restituisce a un Salvini sconfitto nella «sua» crisi e imbarazzato dall’uso strumentale di una bambina sul palco di Pontida, la possibilità di tornare all’attacco. E puntando più in alto. In un gioco di sponda forse involontario ma oggettivo, con una manovra spregiudicata Renzi offre al capo del Carroccio un’arma sia contro il premier sia contro il capo dello Stato. Non pare vero, al Carroccio, di poter dire a un Quirinale ineccepibile nella gestione della crisi aperta da Salvini: «Penso che Mattarella doveva far scegliere. Di fronte a quello che vediamo, non sarebbe stato più democratico, costituzionalmente corretto, trasparente, far scegliere gli italiani?». Costituzionalmente corretto no, e nemmeno democratico, visto che esiste un Parlamento. Ma la propaganda leghista promette di avere presa in un elettorato confuso. La nota informale diffusa ieri da Palazzo Chigi mostra un Conte irritato e sorpreso da uno strappo renziano consumatosi poche ore dopo avere incassato ministri e sottosegretari. Tra le righe si leggono la delusione e la preoccupazione di chi si ritrova un problema in più. E non solo perché gli scissionisti cercheranno di esercitare il loro piccolo potere di ricatto. Il premier teme l’imbarazzo e l’agitazione che l’alleanza forzata con Renzi alimenterà nel M5S. Dover trattare con Zingaretti è una cosa. Trovarsi tra gli interlocutori anche il vecchio nemico è un trauma, per i grillini. «Di Maio dice che non cambia nulla. È il ministro Vinavil, incollato alla poltrona», infierisce Salvini. E indica «porte aperte» a chi è deluso da un Movimento che dopo avere sognato la rivoluzione «ora fa accordicchi con Renzi e Zingaretti». E pazienza se dietro all’ex segretario e ex premier si snoda una pattuglia di seconde e terze file. È vero, il grosso del Pd osserva la scissione con una miscela di rabbia e di sollievo, perché da tempo guardava a Renzi come a un dirigente divisivo. Tra l’altro, la posizione di rendita è indebolita dal terrore renziano di elezioni anticipate. Ma l’ennesima frattura a sinistra riconsegna l’immagine di un governo già precario, e in prospettiva più litigioso del previsto. Legittima la sfida salviniana nelle piazze, e l’accusa alla maggioranza di spartirsi «poltrone e sofà». Da ieri e per i prossimi mesi contrastare questa narrativa sarà più difficile, per Conte; e forse anche arrivare tranquillo alla fine della legislatura.
Perché lo fai? Perché è la mia natura. Verrebbe da evocare lo scorpione della favola di Esopo per spiegare la scelta di Matteo Renzi, che subito dopo aver spinto il Pd al governo con i grillini, se ne va portandosi via due ministri, un sottosegretario e dai 30 ai 40 parlamentari. Non è infatti chiaro che cosa lo divida così tanto dal suo ex partito da averlo costretto ad andarsene. Non certo l’idiosincrasia per i Cinquestelle, visto che è stato lui a trascinare Zingaretti all’accordo con Grillo. Né la separazione può essere motivata da uno scivolamento a sinistra del Pd, se Renzi stesso sostiene che a comandare lì è Franceschini, tutt’altro che un Che Guevara. Però in politica più del «narcisismo» evocato da Grillo conta la volontà di potenza. Renzi sta provando a diventare il Ghino di Tacco di questa legislatura, per usare il soprannome che si diede Craxi quando tentò di infilarsi come terza forza nel predominio dei partiti maggiori. Fa spuntare dal nulla una nuova componente del governo, trasformandolo in un tricolore all’insaputa del premier; e l’obiettivo è poter dire la sua su tutti i dossier che contano. Tra questi ce ne sono di inconfessabili, come le nomine negli enti, ma anche di già dichiarati, come la partita della fusione tra Leonardo e Finmeccanica. Il fatto è che Renzi non ha mai superato il trauma della sconfitta nel referendum del 2016. Non se ne è mai dato una spiegazione politica, e dunque la considera un’ingiustizia della storia, il frutto di un destino cinico e baro. Le sue indubbie doti di leader lo spingono a ritenere che deve essere un numero uno. E se non può esserlo più nel suo partito, allora se ne fa un altro. Il governo andrà avanti: la maggioranza resta identica dal punto di vista numerico. Ma è più instabile, perché i patti iniziali sono già cambiati. I Cinquestelle volevano fare un governo con il Pd ma senza Renzi e ora siritrovano la Boschi al tavolo della maggioranza: fino a che punto potranno far finta di niente? E poi c’è da capire come il nuovo arrivato giocherà i suoi numeri in Parlamento. Si dice che proprio per questo ConteeFranceschini stiano già cercando di formare una zona-cuscinetto al Senato, un manipolo di volenterosi pronti a disinnescare eventuali ricatti. Soprattutto resta da capire che cosa sarà del Pd. Colpito dalla maledizione di Tutankhamon della sinistra, che si scinde senza sosta fin dall’Ottocento, il Pd sembra un partito mai nato. Gli ultimi due segretari, Renzi e Bersani, l’hanno lasciato. Il primo segretario, Veltroni, ha lasciato la politica. Il fondatore, Prodi, ha da tempo spostato altrove la sua tenda. Dal punto di vista numerico lo scisma di Renzi non ne pregiudica il futuro, anzi; al Nazareno fanno notare che su 150 parlamentari se ne vanno in «Italia viva» intorno al 20%, molti meno dei presunti renziani. E i sondaggi dicono che un eventuale nuovo partito farebbe molta fatica nelle urne (e infatti Renzi annuncia che non intende presentarsi in nessuna competizione elettorale fino alla fine della legislatura, che spera duri fino al 2023). Ma ciò non toglie che il colpo preso dal Pd è serio. Nato per unire culture progressiste diverse, le vede invece dividersi ulteriormente. Concepito per avere un’ambizione maggioritaria, si è ridotto a sperare in un ripristino del proporzionale puro per poter trovare alleanze. Ma tra scissione e proporzionale c’è un rapporto di causa-effetto. Goffredo Bettini, uno dei suoi teorici più sofisticati, ha giustificato l’addio di Renzi proprio con l’imminente riforma elettorale. Così il Parlamento sembra destinato a frantumarsi sempre più in un agglomerato di progetti leaderistici e di gruppi di potere, che si compongono e si scompongono un po’ come avveniva ai tempi di Depretis, l’inventore del trasformismo. I partiti, le opzioni ideali, le grandi scelte programmatiche impallidiscono, a vantaggio della pura manovra e della campagna elettorale perpetua. Aggravando così il già pesante dubbio dell’opinione pubblica sulla politica democratica e la sua credibilità. Magari sarà proprio la scissione di Renzi a far scattare un allarme. Non è detto infatti che non induca a un ripensamento sulla legge elettorale. È chiaro che con il proporzionale il Pd non tiene, perché non è unito né da una solida cultura riformistica né da una leadership carismatica. Ma siccome il Pd, come tutti i partiti strutturati e presenti sul territorio, è essenziale per tenere in salute la democrazia, forse sarebbe meglio evitare che il Parlamento diventi una sorta di Temptation Island. Anche perché così i governi, come si è già visto e come rischiamo di vedere presto, finiscono per durare pochi mesi. Mentre il Paese, che assiste sgomentoaquesti scampoli dell’estate più pazza della politica italiana, è già con la testa all’autunno e ai suoi guai.