Ingegnere del caos, architetto della Brexit, eminenza grigia del governo di Boris Johnson: questi sono solo alcuni dei nomignoli con cui la stampa britannica si riferisce a Dominic Cummings. Vale a dire il 48enne consigliere senior del nuovo governo di SuaMaestà che pian piano sta venendo allo scoperto dopo mesi passati nell’ombra. Da giorni il volto dell’uomo – spesso paragonato, per ruolo e capacità, a Steve Bannon e Gianroberto Casaleggio – riempie le pagine dei giornali, incuriositi da un profilo così atipico per la politica britannica. Una foto che lo ritrae alle spalle del trionfante BoJo mentre il Premier prende possesso della residenza al numero 10 di Downing Street ad esempio, ha fatto il giro dell’Isola: nascosto in un angolo con una t-shirt grigia che cozza con le cravatte degli altri presenti,Cummings applaude al successo della sua creatura. Sì, perché se è veroche il primoministro inglese – insieme a Nigel Farage – è stato il volto della campagna per la Brexit, Cummings ne è stato il cervello. CONSIGLIERE POLITICO Il deus ex machina del Leave che BoJo non solo ora ha nominato suo consigliere politico, ma acui ha anche affidato la supervisione di tutti i consulenti dei diversi ministeri e, quindi, la guida informale del percorso verso il 31 ottobre. Un ruolo che il 48enne, conunpassato da studente di storiaadOxford,sièmeritatograzie al lavoro compiuto a partire dal 2015. Vale a dire da quando un gruppo di parlamentari e imprenditori britannici lo raggiunse nella sua tenuta di campagna diExeter,nelsuddelPaese, incui si era ritirato dopo 7 anni al servizio diMichael Gove (giàministro dei Tories con Theresa May, ora riconfermato nel rimpasto), per affidargli lacampagna referendaria per il Leave. È sua infatti la strategia risultata vincente: sloganbrevi,un teamdi professionisti in grado di analizzare le tendenze sul web e, soprattutto, una tenacia fuori dalla norma. Proprio la capacità di focalizzarsi su un obiettivo è uno dei tratti più apprezzati e temuti del consigliere. Non è un caso se la società di produzione televisive Hbo ha scelto proprio il suo personaggio per raccontare i giorni che portaronoalvotodelgiugno2016. POLEMICA ANTI ÉLITE Nel film “Brexit: Uncivil War” infatti, l’attore Benedict Cumberbatch veste i suoi panni. Cioè quelli di un uomo scontroso, a tratti bizzarro, sempre a disagio sotto i riflettori e con una decisa vena polemica anti élite. Quest’ultima marcata al punto che il 48enne, nonostante abbia trascorso la sua intera carriera accanto a politici e think tank conservatori, non fatica a dichiarare di considerarsi esterno a qualsiasi partito, anzi, di detestare molti esponenti deiTories. Un disprezzo che nascerebbe dall’idea che l’establishment ha ignorato le opinioni delle masse creando una distanza che ora, dall’interno del palazzo, l’uomo vorrebbe provare a ridurre: appena incaricato infatti ha congelato le ferie di tutti i parlamentari e dei loro collaboratori. Portare a termine lamissione Brexit entro la fine di ottobre ha la priorità su tutto. D’altronde, come recita lo slogan scelto dallo stesso Cummings per l’occasione, non ci sono molte alternative: «Do or die», fare o morire.

Senatore Matteo Renzi, Conte ha ricevuto l’incarico. Riuscirà a formare il nuovo governo? «Per me sì. Ovviamente sarà cruciale la discussione sui contenuti. Non potremo mai votare la fiducia a un governo che aumenta l’IVA o che fa passi indietro sulla lotta all’evasione fiscale. In questo senso trovo incoraggianti le prime dichiarazioni di Conte: non dimentichiamo che la procedura di infrazione europea è stata salvata grazie alla “nostra” fatturazione elettronica. L’Italia è ferma, rimettiamoci a correre». Che orizzonte ha questo governo? Sarà un esecutivo di legislatura o si fermerà prima del 2023? «A mio giudizio la legislatura arriverà al 2023. Lo prevede l’ordinaria gestione della cosa pubblica: le legislature durano cinque anni. E negli ultimi 23 anni solo una legislatura si è interrotta prima dei cinque anni canonici: con Prodi e Bertinotti nel 2006/2008. Per il resto è sempre durata cinque anni. Accadrà così anche stavolta. Che ci arrivi questo governo dipenderà dalla qualità dei ministri che saranno scelti. Mi auguro che il premier voglia scegliere i migliori, mettendo in sicurezza soprattutto i dicasteri più delicati a cominciare da Viminale e Tesoro. Salvini aizzerà le piazze contro il governo e al Viminale ci vogliono nervi saldi e un ministro degno di questo nome». In tanti sospettano che sarà lei a staccare la spina. Che garanzie offre al suo partito e a Conte? «Dopo quello che è accaduto in questo mese, mi aspetterei un grazie, non la richiesta di garanzie. Ho messo la faccia su un’operazione difficilissima per mandare a casa Salvini, che fino a qualche settimana fa sembrava invincibile. L’ho fatto perché il linguaggio e la postura degli ultimi mesi erano assurdi: pieni poteri, la pacchia è finita rivolto a delle donne violentate, le opacità nelle relazioni con la Russia o sui 49 milioni di euro. Fermare Salvini mi è costato umanamente molto perché per farlo abbiamo dovuto aprire ai grillini: e io ricordo la colata di fango che ho subito in questi anni tramite fakenews e diffamazioni. Vorrei che questa fatica umana fosse riconosciuta: paradossalmente chi lo ha capito meglio di tutti è stato Salvini, che non perde occasione per rimarcarlo. Io non sono quello che stacca la spina: magari posso essere tra quelli che la spina l’ha attaccata, portando la corrente in un luogo in cui non c’era. Al governo che sta per nascere dirò: pensate a lavorare, non a inseguire i fantasmi». A questo giornale, qualche giorno fa, Zingaretti ha detto: “Nel Pd è prevalsa la mia linea”. È così? «Non riuscirà a farmi fare polemica col segretario del Pd. Se questa è la linea di Zingaretti, mi fa piacere. L’importante è che Salvini sia andato a casa senza tentare l’operazione pieni poteri». Il Pd ha ritrovato unità. È un’unità vera o solo di facciata? «È stata unità vera. Faticosa, ma vera. Abbiamo messo da parte le discussioni interne, che potremo riprendere il giorno dopo il giuramento». Grillo ha proposto ministri tecnici. È d’accordo? «Chi fa il ministro è sempre politico, mai solo tecnico. Ma mi piace l’idea: scegliere persone di grande qualità. Ad esempio: con Grillo un anno fa ho firmato un documento a favore dei vaccini, predisposto dal professor Burioni. Ecco, mi piacerebbe che alla Sanità andasse uno come Burioni, con l’assenso anche grillino. Poi magari il prof non accetterebbe. Ma per dire che la proposta di scegliere persone di qualità è sempre vincente. Dopo di che, sceglieranno Conte, Di Maio e Zingaretti». I renziani nel governo o fuori? «I renziani non lo so, non tocca a me. Renzi di sicuro fuori. Fuori e felice. Ho fatto questa scelta per evitare l’aumento dell’Iva e l’isolamento dell’Italia. Ma sarò credibile se non otterrò nessuna poltrona perme in cambio». Si parla di Gentiloni come commissario Ue. Pensa sia una scelta giusta? Le sue ultime considerazioni sull’ex premier hanno fatto discutere. «Ho talmente stima di Gentiloni da averlo difeso nel 2013 dall’epurazione delle liste operate da Bersani. Poi l’ho proposto ministro degli Esteri e quindi premier. Credo che farebbe benissimo come commissario. Ma come lui ce ne sono altri. Pensi solo a uno con il profilo di Graziano Delrio, convinto europeista e orgoglioso protagonista del recupero dei fondi europei e dei corridoi continentali». Di Maio che ruolo dovrà avere? «Quello che decideranno lui, Zingaretti e Conte. Certo non al Viminale, dove occorre un professionista della sicurezza e non un ex vicepremier che non ha esperienza in questo senso e sarebbe solo il nemico perfetto per Salvini». Il riformismo rischia di essere minoritario nel governo che sta per nascere. Teme un’eccessiva sterzata a sinistra? «Non so se qualcuno pensa di fare un governo massimalista di sinistra. Mi pare che la linea programmatica espressa dal premier incaricato abbia già fugato i dubbi. Comunque noi vigileremo per mantenere forte l’identità riformista del governo e soprattutto del Paese». Grillo è convinto che l’alleanza tra i due partiti darà vita a una nuova sinistra. «Mi sembra si corra da un eccesso all’altro. Continuiamo a essere avversari in tutte le città a cominciare dalla Capitale e da Torino. Il nostro giudizio, pessimo, sulla Raggi non cambia perché qualcuno di noi prende un ministero, chiaro? Mi piacerebbe invece che si mettessero più soldi sulle città: l’ultimo piano finanziato è il vecchio piano periferie da 2 miliardi di euro, ideato nel 2015 seguendo la filosofia di Renzo Piano del “rammendo”. Oggi si dovrebbe rispondere alla richiesta di autonomia avanzata dalla Lega con un grande investimento sulla vivibilità delle città, a cominciare proprio dalle città metropolitane come Roma, Milano, Torino, Palermo, Reggio Calabria, Napoli, Bari, Firenze. Fare l’autonomia passando per i sindaci e non per i consiglieri regionali: spero che il governo abbia la forza di fare una proposta del genere». Calenda se ne è andato. È l’apripista di un’operazione che la vedrà coinvolto? «No. Carlo è andato via da solo e tale resterà anche in futuro. Non sta aprendo la strada a me, almeno. Sono orgoglioso di aver scelto Calenda come collaboratore, ambasciatore, ministro e di averlo sostenuto durante la sua campagna elettorale: è stato un ottimo tecnico. Rispetto la sua opinione, oggi, pur non condividendola. Mandare a casa Salvini, per me, era fondamentale. E non si va a votare solo perché così hanno deciso al Papeete: il Parlamento è più importante del Beach Club». Infine le priorità. L’economia e la manovra: quali provvedimenti sono indispensabili e urgenti? «Decideranno i team economici di Pd e M5S. Per me Quota 100 è uno spreco di risorse assurdo, come dimostrato anche recentemente da una inchiesta proprio del Messaggero. Lo scontrino digitale e la lotta all’evasione continueranno a dare frutti, sulla strada già tracciata dalla Leopolda di qualche anno fa e seguita anche dal governo uscente. Evitare l’aumento dell’Iva è un imperativo morale. Poi ovviamente ci sono tante piccole e grandi misure pro crescita a cominciare dallo sblocco dei cantieri che servono, dal trasporto pubblico locale, dall’economia verde, dal piano sul dissesto idrogeologico, dal ripristino di Industria 4.0. C’è spazio per fare un buon lavoro. E mi conforta vedere la reazione entusiasta dei mercati: quando non fai lo spaccone, quando lavori sodo, quando ti riconoscono credibile, gli investitori ti premiano. È bastato far notare il cambio di maggioranza e lo spread è sceso. La prima misura economica è tornare forti in Europa. Nei prossimi mesi cambierà il paradigma economico della Commissione e andremo sempre di più verso gli investimenti, lasciando l’austerity: bene che l’Italia sia al tavolo che conta, senza giocare in serie B come ci costringeva a fare Salvini». Fabrizio Nicotra

I gemelli sulla camicia, la pochette e una carica che è il massimo nell’Italia ancestrale e post moderna che avrebbe deliziato Vittorio De Sica: quella del Bisconte. Ed eccolo qui “Giuseppi”, come lo chiama Trump, una sorta di arci-italiano non alle vongole. Il quale ha portato la rispettabilità notabilare della provincia al centro del potere Grazie a un uso sapiente della passività attiva (“Io? Inutileche vi fate i selfie con me, perché tra poco tornerò ad essere un semplice professore d’università”, diceva l’altroieri) e della conciliazione del grillismo e della democristianeria, del nuovissimo e della tradizione. Guai insomma a banalizzare il fenomeno Conte, il Biscontechedicendo “ilmiononsaràun governo contro” azzera la politica contundente, propone un ritorno al futuro dell’Italia del proporzionale, azzera decenni dimal vissuto maggioritario, segnala il compromesso come virtù salvifica. E pone una questione a cui nessuno potrebbe dire di no. Chi mai potrebbe rifiutare quel “nuovo umanesimo” annunciato dal Bisconte tra le suepriorità? Lamomentanea vittoria di Giuseppi, un po’ Zelig, un po’ Forrest Gump, un po’ il più professionista (medio) tra pseudo professionisti che si credono o sono spinti a credersi giganti (Salvini, per non dire di Di Maio), è il successo di chi si agita poco calcolando il fatto che se ti agiti troppo il destinonon riesce a incontrarti. Mentre gli altri si consumano inseguendo la loro sorte, i Giuseppi se la fanno scivolare addosso. Fino a passare da renziani sconosciuti – questo è stato in una fase Conte – a dem di ritorno ma in una chiave comprensiva, visto che il genio italiano va per accumulazioni e non per sottrazioni, di tutta la propria biografia. Quella, nel caso di Conte, del moderato pugliese (la sinistra ora finge di crederlounnuovo AldoMoroma anche la santificazione dell’avversario che serve deve aver un limite di decenza, già superata a suo tempo con Dini o con Fini) che si fa strada nel Palazzo, dell’avvocato del popolo che gioca ad essere il giacobino che non è per deliziare il pubblico del vaffa (lui che non ha mai detto una parolaccia in vita sua), del felpatone che grida con voce non gridata “sono orgoglioso di essere populista” ma quasi contemporaneamente bacia la mano al simbolo dell’anti-populismo merkeliano (frau Angela). E diventa il garante dell’establishment europeista. Essere Bisconte – come Essere John Malkovic, tanto per citare il titolo proverbiale di un gran film – non è dunque un colpo di fortuna.Ma il riassuntodiuncarattere nazionale. Se Berlusconi è stato a suomodo la biografia della nazione, a livellominore, più improvvisato, magari transeunte ma forse molto aderente alle aspettative generali anche Conte lo è. Nella formula del “nuovo umanesimo”, proposto come canone dell’Italia in giallo-rosé, c’è il condensato di Giuseppi il Camaleonte (non più quello che nel 2018 si scagliava contro la “finta solidarietà” e sbandierava con Salvini il cartello in omaggio al Decreto Salvini ma quello che si augura “un Paese più solidale e più inclusivo”) e non è detto che dopo il muscolarismo salvinista non faccia breccia questo approccio più morbido e apparentemente meno ideologico. L’estremo capolavoro del Bisconte, l’uomo delle mezzemisure, il talento dell’identità così poco esibita che è più semplice renderla cangiante, è quello di essere in quota di un partito, M5S, essendo in tutto però l’incarnazione (più Letta o Gentiloni?) del partito alleato e concorrente,cioè il Pd. Ma con un quid in più: sapienza pop neo-vetero democristiana in un involucro benecomunista, eco-ambientalista, tutto inclusione sociale più Grillo e Greta. E il Pianeta è più appealing del Nazareno. Ecco allora una storia italiana, e assai meridionale per la biografia del protagonista, al netto della “corda pazza” che sarebbe piaciuta (quanto ci manca) a Leonardo Sciascia. È tutto molto studiato nelmiracolo nient’affattomiracoloso del Bisconte. Il quale gode, ma per meriti sul campo e non per caso, di quel premio in Italia assai ricorrente che potremmo chiamare il Premio Badoglio (il trofeoTalleyrand sarebbe ancora più sproporzionato) e che viene assegnato allo sconfitto (il governo gialloverde è stato un mezzo disastro) capace di garantire la nuova fase. Chi si sfila dalla compagine a cui apparteneva (Giuseppi alcontrariodiBadoglione è stato addirittura il titolare) nel Paese allergico ai veri scossoni può diventare il traghettatore che serve. E la speranza è che serva davvero.

Per tutta la vita si è occupato di ambiti apparentemente lontani come la geopolitica vaticana e la formazione dei giovani. In realtà il cardinale Achille Silvestrini, morto ieri a 95 anni, applicava in entrambi i ruoli lo stesso metodo: il dialogo. Da ministro degli Esteri è stato protagonista della revisione del Concordato con l’Italia e della grande stagione della Ostpolitik, la mediazione con i regimi comunisti dell’Europa orientale per tenere in vita le comunità religiose. Da direttore del collegio Villa Nazareth, ha educato generazioni di studenti meritevoli e indigenti. Papa Francesco ricorda il «diplomatico abile e duttile al servizio di sette pontefici, pastore fedele al Vangelo e attento alle necessità degli altri». Figura simbolo di un’epoca§ Al ritorno dalle missioni all’estero(Est Europa, Terra santa, Buenos Aires per le Falklands, Nicaragua, El Salvador, Libano, Siria) si informava subito sui risultati scolastici dei suoi ragazzi, con i quali il colloquio non si interrompeva mai. Maestro di vita cristiana e padre spirituale per una comunità-cenacolo ispirata al Concilio Vaticano II e fondata sulla «diaconia della cultura e dell’incontro», aperta agli scambi culturali con atenei stranieri e frequentata da protagonisti della vita pubblica e della cultura come Agnelli, Ciampi, Scalfaro, Cossiga, Prodi, Fellini, Gassman. Uomini di Stato e vertici ecclesiastici riconoscono che in mezzo secolo al servizio della Chiesa e dei giovani ha sempre dato prova di rettitudine e onestà intellettuale. Rutelli segnala i suoi «storici meriti per le comunità cristiane nel mondo e per lo sviluppo di un’innovativa diplomazia internazionale». Pastore d’anime e fine diplomatico, è stato il simbolo di un’epoca, di un modo di interpretare il dialogo internazionale e di affrontare temi complessi come la pace tra i popoli e il contrasto alla proliferazione delle armi atomiche. Ha contribuito a dare spessore ai rapporti Stato-Chiesa negoziando gli spazi di collaborazione tra istituzioni civili e religiose in campo formativo, culturale e politico. Amico di Moro, Spadolini e Andreotti, fu riferimento per il cattolicesimo democratico e i settori riformisti del Sacro Collegio. Pacatezza e capacità di intessere relazioni. Alla sua scuola sono cresciute personalità influenti su entrambe le sponde del Tevere come l’attuale segretario di Stato, Parolin e il premier Conte. Oggi alle 15 i funerali nella basilica di San Pietro. Poi l’ultimo saluto a Villa Nazareth di tre generazioni di suoi allievi.

E video sia, su TikTok. Con i ragazzini che ballano e le lolite che ancheggiano in perizoma. Largo alla fantasia e – come dicono quelli del sito – «alla creatività». Ai video con le battute e agli sketch di vita da adolescenti e di vita da adulti che l’adolescenza non l’hanno mai finita. Ai contest di ballo sfrenati, agli ammiccamenti, e pure al pubblico ludibrio, talvolta consapevole e sempre devastante. Inseguendo l’unica cosa che conta davvero e in nome della quale si sacrifica tutto: i paganissimi «like»: più ne hai e più sei popolare. E più sei popolare e più sei figo. Largo alla fantasia, sì. Anche infilando nei video dei bambini – non quattordicenni – ma bambini-bambini co-attori nei «tubes» di mamme e papà religiosamente fedeli al nuovo mondo: Facebook è morto, è nato TikTok. O meglio, visto dallo schermo di uno smartphone, Facebook e il signor Zuckerberg sono finiti nelle caverne della preistoria dei social. Il nuovo – finché dura – arriva dalla Cina ed è un mondo che agita i sonni dei genitori e fa impazzire i ragazzi. E bussa sugli app store: TikTok. Ecco, raccontare oggi che cos’è questa app con 600 milioni di utenti tra Usa, Europa e Cina è entrare in una realtà che non ti aspetti. Perché è disponibile in 150 mercati e in 75 lingue; all’inizio del 2018 è stata una delle applicazioni più usate al mondo. Nella prima metà del 2018 è stata la più scaricata da Apple store a livello globale. Su Facebook trovi le fotografie del cibo, scopri l’edonismo nelle foto delle vacanze a Minorca o nel viaggio organizzato a Skopelos. Incroci le visioni politiche del vicino di casa, che discetta di governi e di Europa mentre sta pitturando di bianco le pareti del bagno. Roba vecchia. Su TikTok no. Ci sono già i figli del vicino che ballano in salotto. Tubes, si chiamano così i video, che hanno durata brevissima: da 15 secondi a un minuto. E trovi la figlia del professore di lettere che – con il fidanzatino e in shorts stracorti – regala imperdibili perle di saggezza discotecara. Trovi la bambina di 12 anni che tenta di ballare. E sembra ancora più piccola della sua età, ed è impacciata nelle magliette della Ovs mentre tenta di muoversi sulle note di «Young Manny». È Tik ToK, appunto, App cinese che da luglio è finita nel mirino del garante della privacy del Regno Unito. Lo racconta il Guardian, e non è l’unico caso al mondo. A febbraio TikTok ha accettato di pagare 5 milioni e rotti di dollari in accordo con la Federal Trade Commission degli Stati Uniti per aver raccolto illegalmente informazioni personali dai bambini. «Roi des Rats», youtuber notissimo in Francia, ha lanciato strali contro la nuova moda. E c’è chi dice che crea dipendenza. Disimpegna. Invita a non pensare attraverso un ballo, un ammiccamento, un video curioso dal Pakistan. Dalla Cina replicano che tutto questo non è vero. O se lo è, è solo in minima parte, come su tutti i social. E raccontano che in Italia anche un programma come Zelig è presente sulla app. Il motivo? Tra milioni di video potrebbero celarsi i nuovi comici, i nuovi fenomeni da tv, appunto. E ci sono anche alcuni calciatori. O personaggi comunque famosi. Gente che «fa tendenza». E dicendo questo si smonta la tesi che il nuovo social è «soltanto» il regno dei ragazzini. Vero: non ci sono soltanto adolescenti . Ma resta il fatto che è la app dei mminorenni e puoi iniziare ad usarla già quattro anni prima di prendere la patente. Già mentre stai finendo le scuole medie. Ma, se sei più piccolo, al momento dell’iscrizione cambi la data di nascita e va bene lo stesso: tanto la app non è l’ufficio anagrafe. Non puoi mentire invece sulla faccia, sul fisico, sulla voce. Sei giovane, formosa e metti gli shorts, al mare il tanga, e hai la maglietta che lascia intuire il seno e hai labbra grandi? Hai fan, like e una quantità di gente che ti scrive in privato. Sei un po’ troppo in carne? I venti secondi di video del quattordicenne (?) italiano e decisamente obeso che si lancia in piscina ha 256 commenti. E molti tutt’altro che simpatici. «Ma è un maschio o è una femmina?» «Hai visto che costume? Ma dove lo ha comprato?» «Stai a casa». È un continuo. Alternato a commenti di chi prova difenderlo, o invita a smettere con il linciaggio e gli insulti, con il risultato di rilanciare sempre commenti sui difetti fisici. Non basta: TikTok, e finito al centro di polemiche per cyberbullismo. «È meglio mia nonna in carrozzella» scrive tal Vincenzo a tal Eli che dice di essere del 2002, ma se guardi le sue foto la vedi col vestito della prima comunione nel giardino di casa. Confermando l’opinione di chi dice che qui si incentiva «una visione delle donne piegata su stereotipi sessuali. Inoculandola nel cervello dei minori». E mentre adulti e sociologi commentano, la app spopola. Dalla Cina spiegano che sul tema sicurezza si fa molto, che ci si può difendere da intrusioni non volute, bloccare commenti inibendo a monte l’uso di certe parole. Insomma: si lavora sulla sicurezza perché il social vale miliardi. E il nuovo mondo non può permettersi di esser battuto da bulli e molestatori. Facebook è il passato. Twitter non è per tutti. Snapchat non piace più. Resta TikTok, l’ultima «community» di chi vuol mettersi in mostra. — cBY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI Dottoressa Barbara Volpi, lei si occupa di psicologia dinamica e in particolare di educazione digitale, cosa pensa di Tik Tok? «E’ un social network che utilizzano soprattutto le ragazze dai 14 anni in su. A mio avviso è molto pericoloso perché, come tutti i social e le app, dal momento in cui le usiamo trasmettiamo dati. Per cui c’è bisogno che i genitori siano consapevoli di questo. Si gioca, ma come tutti i giochi online, nasconde anche dei pericoli. Ci sono anche fatti di cronaca eclatanti. Adulti che si celano dietro falsi profili e iniziano a instaurare rapporti virtuali con le ragazze con il rischio di manipolarle». Quale ruolo può avere l’educazione nell’evitare queste trappole della rete? «Il cellulare in Italia si dà in mano a ragazzi di 10 anni. Prima, però, occorre far crescere i ragazzi in una cornice educativa che promuova un uso responsabile e consapevole della rete. Occorre impostare l’educazione digitale in una traiettoria che segua il bambino dalla nascita fino all’adolescenza partendo dal nostro buonesempio,conoscendoirischi e i pericoli e sfruttandone le potenzialità degli strumenti digitali. La scuola ha un ruolo molto importante nel dare un’educazionedigitalecorretta: con gli strumenti digitali si può davvero lavorare e aiutareiragazziapensare.Ilproblema è: dobbiamo aiutare i ragazzi a pensare a quello che stannofacendo». Quale effetto hanno i “like” sullo sviluppo dei ragazzi? «Instaura una sorta di competizionema anche una forma di controllo dell’altro. Molto spesso con Tik Tok, come altri social, i ragazzi sono supportati nella logica di volere tutto e subito. In adolescenza è normale volere tutto e subito e il webè un grande rivelatore dei bisogni dell’uomo. Non bisogna dimenticare che l’uomo ha creato i social. Lo ha fatto Mark Zuckerberg nel 2004 con Facebook. La logica che c’è dietro è: se io sono seguito, vuol dire che valgo. In realtà, questo non è vero: per valere devoscendereincampoemettermiindiscussione.Nonsempre i “like” portano alla consapevolezza eall’autostima chei ragazzi in questo momento di crescita e di svincolo dal genitore vogliono. E’ un tipo di consenso che a livello celebrale stimola livelli di dopamina e di eccitazione simili a quelli di chi compie gesti estremi. Lo schermo da un lato ci protegge,dall’altroinvececicatapultainunmondoenorme». Cosa fare per aiutarli? «Ricordiamo che sono sempre degli strumenti è l’uso che ne viene fatto a costituire il problemareale.

In Germania domenica potrebbe cambiare qualcosa, qualcosa di molto grande. Per la prima volta dal dopoguerra un partito di estrema destra, con due capolista dai trascorsi sfacciatamente neonazisti e revisionisti, potrebbe conquistare ad un’elezione regionale il 20 e più per cento dei voti e – nella peggiore delle ipotesi non del tutto esclusa dai sondaggi – diventare addirittura prima forza politica. A votare saranno i cittadini dei due Länder tedesco orientali del Brandeburgo e della Sassonia, in tutto circa 5 milioni di persone, appena il 6% dell’intero elettorato tedesco. Ma l’esito del voto potrebbe avere ugualmente ripercussioni pesanti a livello federale. Una destra populista rafforzata dalle urne rischia d’indebolire ulteriormente i grandi partiti, far traballare non poco i cristiano-democratici, innescare la fine dell’era di Angela Merkel e mettere in evidenza ancora una volta le forti divisioni ancora esistenti fra le due parti della Germania. Mentre nelle regioni occidentali l’AfD sembra in declino e viene attestata intorno al 12%, all’est è sempre più forte. Nella Uckermarck, estremo nord est del Brandeburgo vicino al confine con la Polonia, si notano di più queste differenze. Con i suoi boschi che si estendono a perdita d’occhio, i piccoli laghetti dalle acque cristalline e una natura incontaminata è una delle aree con la più bassa densità di popolazione di tutta la Germania, appena 39 abitanti per chilometro quadrato. Un’oasi verde apprezzata a suo tempo anche dalla nomenklatura del regime socialista tedesco orientale che si riuniva qui per le sue leggendarie battute di caccia. Ma è proprio in zone come queste che il partito dell’ultra destra populista Alternativa per la Germania (AfD) raccoglie molti consensi. Anche se distanti solo 90 chilometri da Berlino, molti abitanti della Uckermark si sentono abbandonati dalla grande politica della capitale. Isolati nei loro piccoli borghi circondati dalle foreste, mal collegati dai trasporti pubblici, privi anche della più minima copertura alle reti di telefonia mobile e dell’internet non hanno una vera prospettiva economica. Al comizio dell’AfD nella cittadina di Eberswalde il pubblico è molto eterogeneo. Ragazzi con la testa rasata siedono accanto a coppie di anziani pensionati, famiglie con bambini parlottano con contadini dall’aspetto rustico, uomini in giacca e cravatta si mischiano a persone in tenuta da jogging con in mano la busta di plastica di un discount. Dalla caduta del Muro di Berlino Eberswalde ha perso un terzo dei suoi abitanti, scesi da 58mila a 39mila. I vecchi Kombinat industriali d’epoca socialista sono stati chiusi e chi era in possesso di una qualifica professionale è emigrato nelle più ricche regioni occidentali del Paese o a Berlino. Sono rimasti quelli che in Germania vengono definiti come i «perdenti dell’unificazione». A loro il leader regionale dell’AfD Andreas Kalbitz promette di tutto e di più. Posti di lavoro, trasporti pubblici più frequenti, pensioni e sussidi sociali più alti, alloggi popolari. Ma soprattutto meno, molto meno rifugiati, «criminali stranieri» e immigrati che «rubano i posti di lavoro ai tedeschi». Poco importa se di stranieri ad Eberswalde (appena il 2,2% della popolazione) se ne vedono ben pochi e se il tasso di criminalità è fra i più bassi della Germania. Kalbitz fa leva sulle tante paure che affliggono i residenti. La globalizzazione, la società multiculturale, i ritmi sempre più veloci dell’era digitale, la fine prossima delle centrali a carbone che qui garantiscono ancora i pochi posti di lavoro rimasti. Kalbitz e il capolista in Sassonia Jürg Urban sono esponenti dell’ala di ultra destra dell’AfD e hanno stretti legami con gli ambienti neonazisti, hanno relativizzato i crimini commessi dal regime hitleriano. Molti simpatizzanti dell’AfD sono disposti a chiudere più di un occhio su questi «particolari» pur di esprimere il loro voto di protesta contro Berlino, contro Bruxelles, contro il mondo intero che dietro ai laghi e alle colline della Uckermarck incombe su di loro come una perenne minaccia.

Chi abbia davvero vinto alla riffa della crisi, ancora non è chiaro. Di sicuro, si sa chi ha perso: Matteo Salvini, precipitato in pochi giorni dall’onnipotenza all’irrilevanza, dall’altare alla polvere, dalle stelle (non cinque) alle stalle, dal tutto al nulla. Perfino al Tg2, il Capitano non è più il titolo di apertura. L’attuale classe politica, già in difficoltà con l’italiano, non ricorrerebbe mai al latino. Ma scommetteremmo che a qualche vecchio saggio democristiano tipo Mattarella sarà venuto in mente Genesi, 3, 19, «memento qui pulvis es et pulverem reverteris», oppure Ecclesiaste 1, 2, «vanitas vanitatum et omnia vanitas». Ma forse più che di vanitas il Capitano ha peccato di hybris, in un’estate dove tutto gli sembrava possibile e alla fine tutto gli è sfuggito dalle mani. Un’estate dove il Papeete Beach di Milano Marittima era diventato la succursale del Viminale o, perfino, in proiezione, di Palazzo Chigi e magari pure di Palazzo Venezia. Un’estate da uomo forte, di editti da spiaggia, di giornalisti sfanculati in diretta Facebook, di onnipresenza mediatica e onnipotenza social e perfino di sogni in infradito sui «pieni poteri». Bullizzando Di Maio e pentasoci fra un mojito e un bagno nell’Amarissimo come già un illustre predecessore, lui però a Riccione, mentre alle Europee entravano milioni di voti, le barche dei disperati non entravano nei porti, sotto l’ombrellone il Paese pareva apprezzare e a detta di tutti l’omo de panza era anche omo de sostanza, lanciato verso gli immancabili destini che in Italia, chissà perché, alla fine non quagliano mai. Poi il solito democristiano cinico e baro, un altro Matteo, ha fatto il suo gioco di prestigio e ha rinnovato la lunga e gloriosa tradizione nostrana di connubi, trasformismi, ribaltoni e così via. L’ha ammesso anche lui, il Matteo leghista, pur con tutti i distinguo del caso, «un errore se lo si considera in base alle logiche della vecchia politica», ma insomma sì, un errore: «Io non pensavo che ci sarebbero stati dei parlamentari renziani che invece di andare alle elezioni avrebbero votato anche per il governo di Pippo e Topolino», che invece poi sarà, pare, il Conte II. L’usato sicuro va forte anche a Topolinia. Matteo, inteso come Salvini, non l’ha presa benissimo. Prima è sparito, poi ha dato la sua versione della caduta: la colpa è dei poteri forti, dell’Europa cattiva, della coppia di fatto Merkel-Macron. «Questo governo nasce a Bruxelles per far fuori quel rompipalle di Salvini», dice l’interessato in una delle sue duemila dirette quotidiane. Naturalmente il complotto demo-pluto-massonico si tramava da tempo, anche se poi non si capisce perché Salvini gli abbia dato una mano sfiduciando Conte. Già, Conte. Macché avvocato del popolo, «è l’avvocato dei poteri forti». L’ex amico è diventato tanto nemico che oggi il Capitano non andrà nemmeno a farsi consultare. E commenta sprezzante il discorso di investitura: «L’ho sentito parlare di nuovo umanesimo. Manca che risolva la pace nel mondo e la ricrescita dei capelli» (sulla tinta, invece, il professore ha già dato). E certo, forse in casa Lega servirà una riflessione su una politica estera spericolata, una maggior attenzione nella scelta degli amici sovranisti, e anche degli intermediari. Putin sarà meglio non farlo più approcciare dai Savoini di turno, Bolsonaro ha ridato Battisti ma sull’Amazzonia non sta facendo una bella figura, Johnson aggiorna il Parlamento come Carlo I Stuart, Trump cinguetta elogi per «Giuseppi» Conte e Orban non si è preso nemmeno un migrante. In compenso ieri ha mandato una scarna letterina dove assicura il «caro Matteo» che lui non lo dimenticherà, che detto così suona perfino un po’ jettatorio. E adesso? Adesso, è chiaro, riprende la campagna elettorale, concesso e non dato che sia mai finita. Il Capitano riparte col giro d’Italia delle feste leghiste, oggi a Conselve, domani a Pinzolo, domenica ad Alzano. È innegabile: l’uomo ha più energia di una Duracell. Già annuncia un week-end di gazebo il 21 e 22 settembre «per chiedere democrazia», il garden party a Pontida il 15 ottobre e soprattutto «una grande giornata di orgoglio italiano» il 19 ottobre, con il popolo chiamato manifestare in piazza a Roma. Si è già capito dove martellerà «la Bestia», la macchina della propaganda social leghista: ancora una volta, il derby da narrare sarà quello del popolo contro l’élite, dell’Italia contro l’Europa, delle urne contro i giochi di palazzo. Le prospettive sono più incerte, però. E soprattutto non dipendono solo da Salvini e dalla sua capacità di entrare in sintonia con la pancia del Paese (che conta certamente più del suo cervello, almeno per quei radical chic che poi lo accusano di votare coi piedi). Dipende anche da cosa i giallorossi riusciranno a fare e soprattutto da quanto riusciranno a durare. L’opposizione paga se non si prolunga troppo, e oggi nella politica italiana un anno è un’eternità. Già i sondaggi, per la prima volta da molto tempo, mostrano una flessione della Lega. E nel partito ormai in molti si erano abituati a posare le terga su poltrone prestigiose. La fronda, per ora, è limitata alla minoranza, a quelli che pensano ancora al Nord e al problema settentrionale, non hanno ancora digerito il salto dalle erezioni bossiane alle ostensioni salviniane e vedono che l’autonomia rimane una chimera. Ma per tenere insieme il partito, per ricostruire dopo la prima sconfitta (tattica, ma pur sempre sconfitta) il mito del Capo infallibile, bisogna che la traversata del deserto non sia troppo lunga. Qualche mal di pancia già affiora. Per esempio, l’insistenza con la quale la testa leghista più fina, insomma Giancarlo Giorgetti, ripete che Salvini ha fatto tutto da solo la dice lunga. Chi però lo dà per politicamente morto sbaglia, e i tripudi sulla fine del Truce o la caduta del Capitone appaiono ottimistici, in ogni caso prematuri. Il Salvini di governo è niente rispetto al Salvini di lotta, che sarà dura e senza paura (già, era o non era un comunista padano?).

I numeri dicono che la maggioranza giallo-rossa in Parlamento c’è ed è più robusta di quella uscente. Alla Camera, il nuovo governo è accreditato di 348 voti quando ne basterebbero 316. Al Senato, però, dove una maggioranza ha bisogno di 161 voti, il nuovo esecutivo può contare su 157 voti certi. I piccoli gruppi allora diventano cruciali e anche il singolo voto pesa. Non c’è da stupirsi. Tradizionalmente, le maggioranze di Palazzo Madama sono le più ballerine. Qui da sempre si tentano i colpi bassi e chissà, magari in un prossimo futuro, qualche senatore potrebbe essere tentato da un cambio di casacca per assicurarsi la ricandidatura. Il pallottoliere del Senato parte dai 107 senatori M5S (ma difficilmente voterà a favore Gianluigi Paragone molto critico con la svolta a sinistra del 5S) e dai 51 del Pd. La base, quindi, è 157. Vanno poi aggiunti 5 ex grillini, fuoriusciti in dissenso per l’alleanza con la Lega e oggi più che bendisposti per il Conte-bis; i 4 senatori di LeU (Pietro Grasso, Loredana De Petris, Vasco Errani e Francesco Laforgia) che sono considerati già nel perimetro della nuova maggioranza; alcuni nel Gruppo delle Autonomie che dovrebbero votare a favore (3 della Svp, il senatore dell’Unione Valdotaine Albert Laniece, più Casini e Bressa); nel Misto ci sono poi la radicale Emma Bonino e il socialista Riccardo Nencini. Infine 2 senatori eletti all’estero, del Maie, che si segnalano per pragmatismo. Per il momento tutti sembrano a favore. E con questi apporti, la maggioranza dovrebbe salire a 176. Quindici voti più del necessario. Vanno poi considerati i 6 senatori a vita (il Presidente emerito Napolitano, l’ex premier Ma Monti, gli scienziati Elena Cattaneo e Carlo Rubbia, l’architetto Renzo Piano, Liliana Segre) che voteranno a favore o al massimo si asterranno, ma che per età e impegni non sono propriamente i più assidui ai lavori parlamentari. Alla prima fiducia, il Conte-bis potrebbe partire con una maggioranza di 182 voti. Soltanto il tempo, però, dirà se è vera forza. C’è all’orizzonte una tempesta perfetta: per la riforma Fraccaro una metà degli attuali senatori non rientrerà. E i grillini ben difficilmente riusciranno ad avere così tanti eletti. Da quelle parti si profila un massacro. E allora, al netto dei senatori a vita, se le sirene di Matteo Salvini ma anche di altri del centrodestra convincessero 7 o 8 senatori a sfilarsi, addio maggioranza. La preoccupazione è tale che già sono pronta a scattare le contromisure. Una vecchia volpe del Senato confida che “abbiamo già agganciati quattro di Forza italia. Non si sa mai».

Il sondaggio qui presentato risale a prima dell’incarico che ieri il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha conferito a Giuseppe Conte per creare un governo a base Movimento 5 Stelle – Partito democratico. Il premier incaricato si è soffermato su temi che rispondono anche ad alcune domande poste nei nostri quesiti e tendono a modificare in senso positivo lo slancio vitale del nuovo governo. Queste informazioni riguardano in particolare le soluzioni alla crisi economica per trasformarla in opportunità, sotto forma di benessere eco-sostenibile. L’opinione pubblica ha accettato le dimissioni del precedente esecutivo e tende a pensare in prevalenza alla costituzione di un governo che poggia su basi diverse, sebbene una parte minoritaria ma non marginale della popolazione preferirebbe tornare alle urne. Tra i potenziali premier il più gettonato è effettivamente Conte; le alternative, salvo una certa concentrazione su Matteo Salvini, sono del tutto irrilevanti. Nel toto-ministri, la fiducia degli intervistati è orientata più verso le personalità più conosciute. Sono quindi citati coloro che negli anni più sono comparsi in televisione e sui giornali e prevale sovente chi è legato al Partito Democratico: Graziano Delrio, Marco Minniti, Dario Franceschini e Andrea Orlando. Non sfigurano, ancorché di altra area politica, Sergio Costa, Alfonso Bonafede, Stefano Patuanelli ed Enzo Moavero Milanesi. Quanto alla durata del futuro esecutivo giallo-rosso, solo un italiano su quattro pensa che la nuova maggioranza possa durare sino a fine legislatura. Una minoranza degli italiani si dice contrario all’esistenza stessa d’una coalizione Pd-M5S, sostenendo che non dovrebbe durare neppure un giorno; mentre la maggioranza assoluta dei «positivi» si augura che il governo nascente sia di legislatura. Chi ha guadagnato e chi ha perso, in questo ribaltone? Sugli sconfitti non ci sono dubbi: viene indicata la Lega, che con Salvini ha cambiato le carte in tavola a suo esclusivo rischio. Molto difficile, per gli intervistati, è invece individuare con chiarezza chi ha guadagnato. In generale sono al rialzo le quotazioni di tutti gli altri, compresi i rappresentanti delle istituzioni (Presidenza della Repubblica in primis) e gli italiani nel loro complesso. Le intenzioni di voto registrano variazioni tra i periodi pre e post-crisi, ma i partiti non hanno né peggiorato né migliorato in maniera significativa le proprie posizioni. L’unico che nel corso del mese di agosto ha registrato un apparente scossone è la Lega, passata dal 36% al 32% attuale. In realtà si tratta del normale assestamento di un partito di massa, che comunque mantiene l’apprezzamento. I movimenti positivi riguardanti Partito Democratico, Forza Italia e Fratelli d’Italia sono del tutto marginali e non sintomatici di particolari tendenze. Quanto alle personalità politiche di rilievo, oscillazioni nella norma per i presidenti di Camera e Senato, prevedibili la discesa di Salvini e la salita di Zingaretti.

Ormai dovremmo esserci, anche se l’imprevedibilità della politica italiana suggerisce ancora un po’ di prudenza. Nel giro di qualche giorno dovremmo avere un nuovo governo. Governo nuovo, ma problemi vecchi. Facciamo il punto della situazione economica, anche tenendo conto degli sviluppi più recenti sui mercati finanziari. Al solito ci sono buone e cattive notizie. Cominciamo dalle prime. Il rapido calo dello spread negli ultimi giorni è la prima buona notizia e sembra riflettere l’apprezzamento dei mercati finanziari per lo scampato pericolo di nuove elezioni che avrebbero probabilmente portato i sovranisti al governo. Lo spread scende allora perché lo vogliono i poteri forti? Mah, a me non sembra sia necessario pensare a una congiura internazionale per spiegare perché i mercati, cioè chi presta soldi all’Italia, si senta rassicurata dall’uscita dal governo di una forza politica, la Lega, che aveva più volte invocato la necessità di aumentare il deficit pubblico in modo significativo anche a rischio di uno scontro con l’Europa. La Lega potrà lamentarsi di non aver avuto la possibilità di mettere in atto un nuovo approccio di politica economica basato su un indebolimento dei nostri conti pubblici. Magari avrebbe potuto farlo se non avesse staccato la spina al governo precedente. Non lo sapremo mai. Ma certo non c’è da stupirsi se lo spread, dopo essere cresciuto rapidamente alla prospettiva di nuove elezioni, sia poi sceso alla prospettiva di un governo senza la Lega. I benefici Lo spread più basso fa bene all’economia italiana per due motivi. Primo perché il suo calo fa risparmiare tanti soldi allo stato. Con un debito di quasi 2400 miliardi, un calo di mezzo punto percentuale dei tassi di interesse comporta un risparmio nel lungo periodo di 12 miliardi, anche se nell’immediato l’effetto è molto inferiore. Secondo, lo spread più basso rafforza il capitale delle banche e consente loro di fare più prestiti. Terzo, c’è un effetto psicologico non indifferente: il calo dello spread segnala l’allontanamento del rischio di una crisi tipo quella che abbiamo attraversato nel 2011-12, una crisi i cui effetti ci stiamo ancora portando dietro. L’altra buona notizia giunge pure dai mercati finanziari. Ci sono tutte le premesse perché le principali banche centrali mantengano basso il costo del denaro, probabilmente con tassi ancora negativi per parecchio tempo sugli investimenti in euro a rischio zero, i bund tedeschi, per intenderci, quelli a cui si somma lo spread. Gli acquisti di titoli di stato da parte delle Bce, il cosiddetto quantitative easing, non sarà un toccasana per l’economia (le banche sono già piene di liquidità e semmai non prestano per scarsità di capitale proprio), ma facilita il finanziamento del debito pubblico. Dal lato dell’economia reale però le notizie continuano a non essere buone. Le previsioni dell’OcseE pubblicate di recente si aggiungono a quelle delle altre principali organizzazioni internazionali nel dirci che il Pil mondiale sta rallentando. Per quanto riguarda l’Italia, abbiamo avuto cinque trimestri di crescita zero. Sembrava che il terzo trimestre del 2019 potesse andare meglio, ma gli ultimissimi dati non sono favorevoli, compreso l’andamento del fatturato e degli ordinativi e del clima di fiducia di famiglie e imprese. In questa situazione il futuro governo ha due priorità: tenere in ordine i conti pubblici e sostenere la crescita. Il raggiungimento di entrambe è facilitato dai bassi tassi di interesse, ma non basta. Sul fronte dei conti pubblici, Tria ha di recente detto che è possibile disinnescare l’aumento dell’Iva. Credo abbia ragione perché le misure di risparmio introdotte in giugno per evitare l’apertura di una procedura d‘infrazione faranno risparmiare un po’ di soldi anche nel 2020. Ma restano da trovare almeno una quindicina di miliardi, possibile, come dice Tria ma non facile, a meno di non trovarli in deficit. Ma come reagirebbero la Commissione Europea e i mercati finanziari a un aumento del deficit? Credo sarebbe semplicistico pensare che, ora che la Lega non è più al governo, la Commissione sarà molto più generosa con l’Italia. Il rallentamento economico consente, sulla base delle regole esistenti, un minor aggiustamento dei nostri conti pubblici, ma c’è un limite. Per quanto riguarda la crescita il nuovo governo dovrò affrontare, ancora una volta, diversi nodi irrisolti dell’economia italiana: un eccesso di burocrazia, un sistema pubblico che funzione male in molti settori chiave (compresa la lentezza della giustizia), un’evasione fiscale tra le più alte in Europa, un Mezzogiorno che perde ancora terreno rispetto al Nord, una debole capacità a innovare, anche per una scuola pubblica che ha subito notevoli tagli nel corso dell’ultimo decennio, gli effetti del crollo demografico. Le riforme Cosa ci sarà nel nuovo programma di governo? Ancora non lo sappiamo ma i punti presentati qualche giorno fa dai pentastellati e dal Pd hanno aspetti condivisibili (green economy, giustizia più veloce, lotta all’evasione fiscale), ma sollevano in campo economico più domande di quelle a cui rispondono. I cinque stelle vogliono una manovra “equa” in cui non si aumenta l’Iva, si taglia il cuneo fiscale, si spende di più per le famiglie, la natalità, i disabili, l’emergenza abitativa e si introduce il salario minino, con costi a carico dello stato. Il PD mette sul piatto un generico rinnovamento delle ricette economiche “in una chiave redistributiva e di attenzione all’equità sociale, territoriale, generazionale e di genere”. L’impressione è, ancora una volta, che si metta prima la redistribuzione del reddito della sua produzione. C’è poco o nulla tra i punti di entrambi i partiti che riguarda temi essenziali come la taglio della burocrazia, il miglioramento dell’efficienza della pubblica amministrazione e, soprattutto, l’investimento in capitale umano attraverso una pubblica istruzione moderna ed efficiente. Non si parla di concorrenza, cosa strana perché a un governo di sinistra non dovrebbero piacere i monopoli e gli interessi particolari. E non si parla di conti pubblici: i cinquestelle promettono meno tasse e più spesa; i PD una redistribuzione che, a meno di voler aumentare le tasse su qualcuno, comporterebbe un buco nei conti dello stato. E’ troppo presto per giudicare. Ma, se davvero come dice Conte, deve essere un governo all’insegna della novità, dovrà esserci uno chiaro stacco rispetto a un passato che ha portato l’Italia a essere ormai per diversi anni il fanalino di coda della crescita europea.