All’inizio non era questa la sua partita. Fosse stato per lui non avrebbe scelto il campo da gioco del governo senza aver prima rinnovato la squadra parlamentare con le elezioni. Ma quando poi si è deciso ad andare avanti, Nicola Zingaretti, almeno finora, non ha sbagliato le sue mosse. È riuscitoadomare Luigi Di Maio: ai primi diktat del leader 5 Stelle si è rivolto direttamenteaGiuseppe Conte. Non solo: dopo essere stato preso alla sprovvista dall’uscita pubblica di Matteo Renzi contro le elezioni e a favore di un nuovo governo conigrillini, Zingaretti, almeno finora, ha «gestito» anche il difficilmente controllabile ex premier, che alla fine ha dovuto affidare nelle mani del segretario la guida della trattativa con i5Stelle. Adesso per Zingaretti viene il passaggio più delicato: far capireaConte che con il Pd deve scendereapatti, che del Pd dovrà tener conto, che senza il Pd il suo governo non andrà da nessuna parte. Il segretario ragiona così con i suoi: «Noi ovviamente chiediamo al premier di essere presidente di garanzia, ma ciò non significa che lui sia super partes. È stato scelto e indicato dai 5 Stelle. Loro continuano a negarlo ma questoèaddirittura offensivo e porterà solo a polemiche e frizioni perché si nega l’evidente. Noi rispettiamo Conte, ma avremmo fatto altre scelteeora se lui vuole costruire un rapporto vero con noi deve capire certe cose e tenerne conto…». Ossia, deve comprendere che la richiesta del Pd di avere un solo vice premier non riguarda il desiderio di accaparrarsi un’altra poltrona, ma rappresenta una garanzia in più perché questo governo possa durare. È ovvio che Zingaretti, oggi, nel caso in cui sui vice premier Conte rilanciasse con altre proposte, non impedirebbe la nascita dell’esecutivo. Maèaltrettanto chiaro che il Partito democratico si sentirebbe meno impegnato e con le mani un po’ più libere. Zingaretti, del resto, è convinto di riuscireaportare tutto il Pd su questa linea. «A parte le polemiche — spiega ai suoi — il partitoèpiù unito, forteecentrale di un anno fa. A settembre del 2018 era al 15 per centoealle ultime Europee del maggio scorso era al 22,7. La mia scelta dell’unità alla fine paga e ci ridà un ruolo. Basta con l’ossessione su chi si intesta prima qualcosa, basta competizione interna e lotte fratricide del passato. Soprattutto dopo le due ultime direzioni c’è stato un salto in avanti in positivo». Eachi tra i suoi guarda con diffidenza all’operazione con i grillini spiega. «È vero, il governo è una vera scommessa. Comunque dei risultati li ha già ottenuti: ha fermato una deriva pericolosa di Salvini, interrotto un governo drammaticoefatto calare lo spread». Ma Zingaretti guarda già al futuro. E dice ai fedelissimi: «Noi non ci chiuderemo nella dimensione del governo, ma rilanceremo il rinnovamento del Pd». Sì, il segretario sa bene che deve puntare sul rilancio se vuole, come vuole, riuscireavincere la sfida delle Regionali con Matteo Salvini. Sarebbe un’assicurazione per la vita: a quel punto nessuno nel partito lo contrasterebbe più. Certo, è vero che nel frattempo ha perso per strada Carlo Calenda. Ma alla fine anche la rottura con l’ex ministro potrebbe volgersi a suo favore. Infatti, se Calenda costruisse un partito che guarda più al centro, prendendo i consensi dei Pd delusi dall’accordo con i5Stelle, ma anche degli elettori di Forza Italia che ritengono chiusa l’esperienza degli «azzurri», sarebbe veramente un male per il Pd? Tanto un movimento politico del genere con chi potrebbe allearsi se non con il Partito democratico? Alle elezioni se la maggioranza giallorossa non riuscisse a varare la riforma elettorale, o in Parlamento se invece passasse il ritorno al proporzionale, che, in realtà, è il grande collante di grillini e Pd.

Non c’era ancora ieri sera un nome scritto a inchiostro nero nello schema del governo alla casella del ministro dell’Economia. Chiunque egli o ella sia, di indelebile c’è solo la stretta di bilancio che aspetta il governo fra poche settimane: probabilmente almeno di 12 miliardi o forse di più, pur lasciando salire il deficit, mentre l’economia dà segni continui segni di frenata e il nuovo governo — se decolla — già dai prossimi giorni dovrà compiere scelte delicate per tenere aperte Ilva e Alitalia. È questa la sostanza dietro il manipolo di candidati segnati ancora a lapis per Via XX Settembre. Negli accordi l’indicazione spetta al Pd, dove si preferirebbe un ministro del partito; è dal 2011 con Giulio Tremonti che in Italia il ministro dell’Economia non è più un politico, competente nel merito ma con le spalle almeno un po’ coperte nella maggioranza e in parlamento. Se questi sono i requisiti, il ventaglio di carte non è infinito. M5S non vuole il ritorno di Pier Carlo Padoan, perché legato ai salvataggi bancari degli anni scorsi; il senatore Pd Antonio Misiani per ora ha soprattutto lavoratoatrovare altri candidati, mentre Claudio De Vincenti resta defilato; molto citato invece è Roberto Gualtieri, di 53 anni. Da due legislature presidente della commissione Economia e Finanza (Econ) all’europarlamento per il Pd, Gualtieri gode di molta stima nelle istituzioni a Roma e a Bruxelles e di aperture di credito sia dall’area del segretario Nicola Zingaretti che dall’ex premier Matteo Renzi. Se Paolo Gentiloni fosse nominato commissario Ue per l’Italia — ad oggi probabile — Gualtieri potrebbe candidarsi nel suo collegio e entrare alla Camera da deputato e ministro. Non è però affatto scontato. Non tanto perché qualcuno fra i5Stelle dubita di lui in quanto «amico di Mario Draghi», considerando come una pecca l’avere buoni rapporti con il presidente della Banca centrale europea. Soprattutto, per l’Italia c’è un altro rischio: perdere la presidenza della commissione Econ all’europarlamento, dove Gualtieri è stato spesso il perno di negoziati che hanno evitatoavari governi (incluso l’ultimo) procedure europee su deficit e debito. Se dunque il Pd rinunciasse a portare Gualtieri nel governo, tornerebbero anche candidati più tecnici. Fra loro Salvatore Rossi, da poco uscito dalla Banca d’Italia, oppure accademici come Marcello Messori, Lucrezia Reichlin, Innocenzo Cipolletta. Questa partita resta fluida, ma non lo è ciò che aspetta il ministro. Quest’anno il deficit arriverà forse un soffio sotto al 2% del Pil, ma nel 2020 tende all’1,6% solo a patto che scattino pesantissimi aumenti dell’Iva da 23 miliardi;restano in più da finanziare altri 4 miliardi in spese obbligatorie e investimenti. Se dunque il governo vuole evitare di far salire le imposte sui consumi e coprire le spese, dovrà subito cercare un compromesso con Bruxelles per un deficit in aumentoevicino a quello a cui mirava il governo gialloverde un anno fa. Per centrarlo, anche senza altri tagli alle tasse, vanno reperiti almeno 12 o 13 miliardi. In parte è l’effetto della spesa corrente in disavanzo decisa un anno fa, ma non è la sola eredità del passato governo: l’Ilva chiude il 6 settembre, distruggendo decine di migliaia di posti, se non arriva una tutela legale effettiva per gli investitori di ArcelorMittal.

«Sei cambiato», gli ha detto uno dei suoi interlocutori durante le consultazioni di ieri pomeriggio. Giuseppe Conte aveva appena spiegato di non essere preoccupato della votazione dei grillini sulla piattaforma Rousseau; e di essere intenzionato a presentare il nuovo governo tra martedì e mercoledì prossimi. Mostrava una sicurezza inedita. «Non più da esecutore di un contratto altrui, ma da aspirante capo di una coalizione politica», ha osservato l’interlocutore. Forse esagerava, dando per scontata una trasformazione tutta da dimostrare. Ma qualche indizio era già spuntato nelle cose dette e in quelle taciute, dopo l’incontro del mattino col capo dello Stato, Sergio Mattarella. Ad esempio, il premier incaricato non aveva mai pronunciato la parola «immigrazione». Volutamente. Per Conte, il problema dei prossimi mesi sarà quello di disintossicare l’Italia da un tema brandito dal ministro dell’Interno uscente, Matteo Salvini, leader della Lega, come una clava; e di trasformarlo invece in uno dei capisaldi di una rinnovata strategia con l’Europa. Con la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, ritiene di avere un bonus per essere stato determinante nella sua elezione; e di poterlo spendere per spuntare una legge sul rimpatrio europeo dei migranti, e maggiore flessibilità di spesa: obiettivi non facili ma decisivi per affermare una strategia meno muscolare e più efficace di quella salviniana. Aveva anche evitato la parola «continuità», cara invece al capo grillino Luigi Di Maio, preferendole quella, politicamente asettica, di «coerenza»; e rafforzandola con una promessa di «novità» per placare le diffidenze del Pd di Nicola Zingaretti. Ma è stata tutta la lunga dichiarazione resa dopo l’udienza da Mattarella a sottolineare la metamorfosi del «professor Conte»: da esecutore subalterno e quasi anonimo del volere di M5S e Lega, a mediatore nelle trattative con la Commissione Ue, fino a fustigatore di Salvini. E, adesso, a premier almeno nelle intenzioni a tutto tondo. Certo, passare da capo del primo governo populista-sovranista dell’Europa occidentale a simbolo di una maggioranza tra Cinque Stelle e Pd, è un salto mortale. Le accuse di trasformismo abbondano. La sensazione, però, è che Conte stia tentando di accreditare non solo un ruolo ma un progetto perfino azzardato: costruire da Palazzo Chigi un’area politica e un blocco di interessi di cui il governo nascente sarebbe il laboratorio. L’immagine è di tecnico del governo: una personalità neutrale, che ai partiti non dovrebbe nulla e che abbraccia con naturalezza i vincoli internazionali di sempre. Un anno fa sarebbe stato impensabile. Con un Movimento postideologico, senza convinzioni che non fossero una confusa e manichea pulsione antisistema, indicare Ue e Nato come pilastri della sua politica avrebbe provocato un terremoto. Ora, invece, lo rivendica senza il timore di essere scomunicato da un grillismo indebolitoespaventato. Non è chiaro se sia il frutto di un’evoluzione per necessità dei Cinque Stelle. Evidentemente, Conte e i suoi sostenitori populisti si sono accorti che andarearimorchio dell’antieuropeismo salviniano avrebbe portato l’Italia all’isolamento; e, più prosaicamente, avrebbe prosciugatoivoti del M5S. Archiviato Salvini, tuttavia, il premier incaricato deve divincolarsi dall’etichetta di longa manus del grillismo di governo. La ricaduta della crisi sulla sua candidatura conferma una inusuale abilità di essere al posto giusto nel momento opportuno. Ma sull’emancipazione politica dovrà faticare di più. A Zingaretti sta cercando di spiegare perché siritiene «super partes»; e dunque non sospetto di parzialità pentastellata se vuole avere due vice, uno del Pd e un Di Maio proteso a ottenere la carica. Ritiene che avere accantoaPalazzo Chigi solo un esponente dem appannerebbe la sua terzietà. C’è da giurare che insisterà fino all’ultimo.Nelle trattative è un maratoneta: lo si è visto a Bruxelles quando ha evitato la procedura di infrazione contro l’Italia per debito eccessivo. E stavolta il suo interesse è dimostrare di essere il «vero» premier, e il potenziale regista di uno schieramento che la destra già tende a bollare come un nuovo «fronte popolare» delle sinistre. È un modo per delegittimarlo preventivamente agli occhi dell’elettorato moderato; e per complicare i rapporti tra il Movimento che lo ha indicato e il Pd, già tesi. L’esperienza di quattordici mesi passati a mediare tra Salvini e Di Maio lo ha segnato. La durezza usata contro il suo vice leghista in Senato, il 20 agosto, si spiega anche con la voglia di sfogare una rabbia repressa a lungo. È un film che Conte non vuole rivedere. Il suo terrore è di assistere a una rissa tra M5S e Pd prima ancora che si formi l’esecutivo. Ce ne sono le avvisaglie ma l’obiettivoèdi sterilizzarla chiedendo alla futura coalizione di non litigare sui giornali, di evitare guerra di poltrone e proposte contraddittorie. A occhio, è l’aspetto più incerto del suo percorso. Eppure non ha alternative, se vuole accreditarsi definitivamente come leader e uomo di governo, e costruire un’alternativa che non si sgretoli alla prima scossa. L’Europa e la fedeltà atlantica possono rivelarsi un grande puntello, ma non basteranno senza un simulacro di coesione interna, ministri di qualità e la capacità di esserne il vero punto di riferimento.

Qualcuno si aspettava che Sergio Mattarella ieri uscisse nella loggia alla Vetrata e parlasse pure lui, dopo che il premier incaricato aveva pronunciato il discorso d’investitura. Certo, una sortita per spiegare agli italiani quanto è successo, il capo dello Stato potrebbe concedersela martedì o mercoledì, quando si prevede che Giuseppe Conte sciolga la riserva, se chiuderà il cerchio portandogli la lista dei ministri. Ma farlo prima di questo passaggio avrebbe potuto alimentare l’equivoco (c’è già chi ci soffia sopra) per cui quello che si tenta di costruire sarebbe un governo del presidente, mentre si tratta di un governo politico. Del quale «l’Elevato» — così l’ha qualificato Beppe Grillo – ha piena responsabilità, stavolta senza dividerla con due vice invadenti, come tocca a un notaio che si limiti a fare il garante di un contratto stipulato da altri. È questa, del resto, la chiave per interpretare l’incitamento di Mattarella a Conte, dopo un’ora di colloquio. Un saluto laconico e, com’è nel suo stile, antiemotivo. Di questo tenore: ora sta a te… Cammina sulle tue gambe e cerca di costruire un progetto alto e convincente… Non sarà facile, ma puoi farcela. Parole che il premier ha tradotto orgogliosamente, con un manifesto programmatico apprezzato dal capo dello Stato, che l’ha seguito e condiviso in diretta tv. A partire dall’autodefinizione finita nei titoli di tutti i siti, in cui mutuava un concetto caro al Quirinale: «Il mio non sarà un governo contro, ma un governo per», aggiungendo che questo «è il momento del coraggio», in primis il suo, ricalcando dunque fino in fondo il senso dell’augurio presidenziale. Parecchi altri echi mattarelliani si rincorrevano poi nel discorso, quasi che fossero frutto di suggerimenti dall’alto: l’emergenza sui conti pubblici, il rapporto con l’Europa da riannodare, l’atlantismo da confermare. E anche il sorvolo su alcuni temi divisivi (immigrazione, autonomie differenziate, grandi opere), sembrava nato dal consiglio di prudenza di uno che ha lunga esperienza. Cenni e omissis di un programma che Conte ha già cominciato ad approfondire con 5 Stelle e Pd, «consapevole delle difficoltà ma determinato», come l’hanno descritto sul Colle. I diktat e le compensazioni fra i partner verranno dalla composizione della squadra, sulla quale scatterà la sorveglianza di Mattarella, al quale spetta — è un potere duale fissato dalla Costituzione — l’ultima parola. In questo vaglio i dicasteri critici, su cui il presidente è prontoaoffrire pareri preventivi, sono l’Economia, gli Esteri, la Difesa e l’Interno. L’«avvocato del popolo» dovrà invece sbrogliare da solo il problema del vicepremier, di cui si vagheggia una versione doppia (com’era nel governo gialloverde), unicaoaddirittura zero. E qui, come per la gestione delle ricadute del referendum sulla piattaforma Rousseau, tutto è appeso alle smanie del capo politico grillino Luigi Di Maio e alle capacità negoziali del premier incaricato. La scommessa di Conte, come si vede, è carica di incognite. Non esclusa una davvero estrema: che alla prova della fiducia in Aula—ipotizzata dal Quirinale per venerdì, con giuramento dei ministri il giorno precedente—ci sia chi possa comprarsi il voto contrario di qualche dissidente. In questa pazza crisi nella quale Salvini lancia minacce con un «non vi libererete di me», tutto è possibile.

Si torna a scuola e molti studenti americani trovano novità: sistemi di videosorveglianza con telecamere installate ovunque. La sola contea di Broward in Florida ne ha installate ben 13 mila nei suoi istituti. Per reagire subito in caso di attacchi armati, si dice, ma anche per studiare i comportamenti dei ragazzi, cercando di individuare in anticipo quelli che potrebbero ricorrere alla violenza. Il tutto affidato non a un custode distratto davanti a una ventina di monitor ma a un’intelligenza artificiale specificamente addestrata che registra tutto. Alcuni di loro non saranno sorpresi: hanno già sperimentato qualcosa di simile durante i tornei sportivi nei quali vengono usati sistemi di riconoscimento facciale. Da Avigilon a Ibm si moltiplicano le imprese che offrono sistemi intelligenti di sorveglianza delle comunità e gli Stati, dalla Georgia al Missouri, che li acquistano a piene mani per le scuole. Ma la videosorveglianza ormai si diffonde ovunque: dalle compagnie aeree che hanno cominciato a usare il riconoscimento facciale agli imbarchi in aereoporti importanti come Las Vegas o Dallas in Texas, a Baltimora continuamente «radiografata» dal cielo dai droni della polizia in missione anticrimine. Da San Francisco alle scuole di New York ci sono amministrazioni che frenano in attesa di regole temendo abusi, ma il rapido sviluppo della tecnologia e il calo dei suoi costi favorisce la rapida diffusione di sistemi penetranti di sorveglianza la cui efficacia ai fini della sicurezza è tutta da dimostrare. Vale soprattutto per le scuole dove queste tecniche che ricordano la «polizia predittiva» del film Minority Report suscitano dubbi inquietanti: ragazzi scrutati di continuo raccogliendo informazioni che potrebbero essere usate in vari modi dagli insegnanti o, addirittura, essere sfruttate commercialmente. Non si tratta solo di uso economico «abusivo» dei dati. Il rischio è che, come in Cina, anche in America la sorveglianza della polizia diventi sempre più massiccia e ubiqua. Il Wall Street Journal ha appena raccontato che, mentre il governo si dice impegnato a difendere la riservatezza dei dati personali dei cittadini, l’Fbi preme per avere accesso ai dati delle società che analizzano il Dna per ricostruire le origini familiari e continua a incalzare anche i social media.

Il costo del debito? Sono ormai chiare le ragioni per cui sale.

Ora almeno sappiamo cos’era. Nell’ultimo anno gli interessi a cui lo Stato italiano si indebita sono esplosi, quindi crollati. È stata un’escursione termica da esperimento di laboratorio, perché questo in fondo è stato l’ultimo anno: un test su sessanta milioni di italiani per capire cosa appesantisce e cosa allevia il loro carico di tasse da pagare per sostenere il debito pubblico. Si sa infatti che piccoli spostamenti producono alla lunga enormi differenze: se il costo medio degli interessi si alza di appena mezzo punto percentuale (0,5%), per esempio, ai contribuenti si presenta un conto pari all’intero costo del reddito di cittadinanza e delle pensioni anticipate a «quota 100». Nell’ultimo anno è successo di più. Il rendimento del titolo di Stato a dieci anni si è impennato dall’1,7% pre-contratto di governo giallo-verde al 3,69% di quando in ottobre fu presentato un bilancio che mirava a un deficit del 2,4% del prodotto lordo, contro il parere di Bruxelles. Quel costo è poi sceso un po’ da quando da fine novembre il governo si corresse. E poi, ancora, quando a inizio estate è di nuovo venuto a patti con Bruxelles. È risalito invece, o è rimasto alto, quando qualcuno nella maggioranza parlava di mini-Bot come moneta parallela all’euro, oppure dava segni di non riconoscere le regole europee in altri modi. Anche quando Salvini ha messo fine al proprio stesso governo invocando «pieni poteri», i rendimenti sono esplosi. Da allora invece si sono dimezzati sotto all’1% a dieci anni, e poco importa che probabilmente il deficit a cui punterà il governo M5S-Pd sarà simile a quello che volevano Lega e M5S. Ciò che fa esplodere il costo del debito dunque non è il livello di disavanzo, né la presenza di Salvini in sé. È il sospetto, fra i creditori, che l’Italia rifiuti le regole europee perché in realtà è disposta a uscire dall’euro (quindi li rimborsi in neolire svalutate). È soprattutto questo timore che fa salire il premio chiesto dal creditore per prestare e, a cascata, le tasse sugli italiani per pagarlo. Usciti di scena gli ideologi anti-euro della Lega, il sollievo è stato immediato.

Nanni Delbecchi è un noto, bravo scrittore e giornalista che scrive sul Fatto Quotidiano. Dove qualche giorno fa ha pubblicato il ricordo di un suo lontano esame di Storia del cinema all’Università di Firenze «nei leggendari anni Settanta» (parole sue, come d’ora in poi tutte quelle virgolettate). Docente di quella materia (ne ometto il nome che in questa sede non ha alcuna importanza) «l’unico professore più a sinistra del Movimento, agli antipodi dei “fascisti” ma lontano anni luce dai cupi baroni cattocomunisti», il quale era solito fare esami di gruppo con una discussione su una tesina: «un quarto d’ora di colloquio e la promozione era assicurata». Esami ovviamente a cui tutti accorrevano in gran numero tanto più, aggiunge, che «in facoltà vigeva un lussureggiante mercato nero di tesi di seconda mano, usato sicuro riciclabile senza problemi». Delbecchi e altri due suoi amici decidono dunque di fare insieme l’esame di Storia del cinema, invitando ad aggiungersi al gruppetto altre tre ragazze loro colleghe al cui fascino non sono insensibili. Argomento: una «tesina sull’ultimo Pasolini dove ci scagliavamo contro la censura inflitta a Salò o le 120 giornate di Sodoma, una difesa appassionata su cui X non poteva che essere d’accordo». Arriva il giorno dell’esame. I sei vengono fatti accomodare «alla spicciolata come fossimo in un salottino» e attraverso i loro balbettii e imbarazzi è subito evidente che dell’opera cinematografica di Pasolini essi in pratica non sanno nulla. Il colloquio culmina nell’invito rivolto dal professor XaDelbecchi di parlare di Teorema , invito che ha per tutta risposta queste uniche, memorabili parole:«Teorema…èun film teorematico…» . «Una decina di minuti dopo, trascorse un paio di ovvietà a testa sulla Trilogia della vita e la sua abiura, il professore ci riconsegnò il libretto in bianco: “Scrivete voi. Poi io firmo”». Pur con qualche pudica esitazioneisei osano: «Trenta?», il professore fa «un’ultima panoramica del gruppo di esaminandi seduti davanti a lui» e poi conferma: «Trenta». «E trenta fu». Conclude Delbecchi: «Il professor X ci aveva dato una lezione». Mi riesce davvero difficile capire quale. Ma che oggi, nel 2019, un simile episodio possa essere ricordato con il compiacimentoecon la conclusione che ho appena riferito, mi pare indicare più di mille analisi raffinate perché l’Italia si trova nelle condizioni in cui si trova. Mi chiedo infatti come avrebbe mai potuto un Paese in cui perlomeno nelle facoltà non scientifiche (mi auguro che almeno a Medicina oaIngegneria le cose andassero un po’ diversamente)le future classi dirigenti hanno compiuto degli studi conclusi da simili esami, come avrebbe mai potuto un Paese simile non ritrovarsi oggi avviato irresistibilmente al declino. Non tanto per il fatto in sé, al limite. Non tanto, cioè, perché con un simile modo di fare gli esami decine di migliaia di giovani italiani si sono abituati ovviamenteanon studiare, uscendo quindi dall’università sapendo poco o niente. E neppure perché di conseguenza ignoranza e impreparazione hanno da un certo momento in poi iniziato a dilagare indisturbate anche ai vertici della società, della politica e dello Stato italiani. Ma per un’altra ragione: perché l’andazzo universitario così ben descritto da Delbecchi (a cui ha più o meno corrisposto quello dell’intero sistema scolastico nazionale), quel lassismo compiaciuto, accettatoeperfino promosso dall’alto, che altro effetto ha potuto avere, mi domando, in chi si è trovato a sperimentarlo, se non quello di inoculargli i germi del disprezzo per le istituzioni e per la loro sgangherataggine? se non quello di apparire la prova della pusillanime inconsistenza di queste, dell’inutilità di ciò che in esse si fa, dell’ipocrisia delle loro regole che prescrivono una cosa ma poi ne tollerano tranquillamente una opposta? È facile immaginare che cosa abbia voluto dire per centinaia di migliaia d’italiani, nei decenni passati, il fatto che il loro primo incontro da adulti con la dimensione pubblico-statale sia stato quello con un’università di tipo delbecchiano , se così posso chiamarla. È facile immaginare l’impressione immediata di entrare in un universo fondato sulla finzione, su un regime di doppia verità tra la forma e il contenuto, tra il dire pomposo del discorso ufficiale e il misero riscontro della realtà. In complesso una lezione perfetta d’ipocrisia e di conformismo. E naturalmente di asineria: come si spiegherebbero altrimenti i concorsi per diventare avvocati, magistrati, professori, dove i componimenti di un gran numero di candidati fanno registrare da anni svarioni memorabili, cantonateecastronerie madornali. Eppure oggi per una persona come Nanni Delbecchi — con l’accordo, sospetto, di una parte significativa dell’opinione pubblica—il suo ridicolo esame di tanti anni fa è solo motivo di una divertita nostalgia. Non solo, ma di ammirazione per quel suo professore impegnato inconsapevolmente, per pura bigotteria ideologico-politica, a ridicolizzare la propria materia, lo studio, l’università. Il quale così facendo gli avrebbe addirittura impartito una «lezione»: ma quale, di grazia? In realtà la dice lunga sul nostro Paese questo suo continuareacullarsi imperterrito nelle idee e nei modi del passato, a ripercorrerne instancabilmenteimiti eariverirne i feticci ormai decrepiti. Vittime di un perenne reducismo consolatorio, non riusciamo a staccarci da ciò che è statoeche siamo stati, a farcene critici come invece dovremmo. Perché è questa la ragione fondamentale che c’impedisce di capire le ragioni della nostra crisi interminabile e quindi di superarla: non voler vedere che essa affonda le radici in un quantità di illusioni e di errori di tanti anni fa, di decisioni sbagliate che prendemmo allora o di cambiamenti che avremmo dovuto fareenon abbiamo fatto. Mentre intorno a noi tutto cambia, noi abbiamo paura di cambiare, di cambiare noi stessi per conquistare gli orizzonti di una nuova vita. Ma piuttosto che una nuova vita a noi interessa cullarci interminabilmente nella nostra accidiosa nostalgia.

Alla fine di agosto si sono svolti due incontri internazionali significativi: la riunione annuale dei banchieri centrali a Jackson Hole in Wyoming e la riunione dei G7. I temi delle due conferenze erano diversi ma da ambedue le riunioni è emerso lo spaesamento comune per una situazione in cui gli Usa non sono più il pilastro della cooperazione internazionale e si fa fatica a trovare un nuovo equilibrio. Un tema centrale affrontato dalla conferenza di Jackson Hole è la crisi del funzionamento del sistema finanziario internazionale dominato dal dollaro. Gli Stati Uniti sono il banchiere del mondo. Si domandano dollari perché gran parte del commercio internazionale si fattura in dollari e/o perché i titoli di Stato Usa sono liquidi e sicuri — e quindi appetibili —, soprattutto quando l’incertezza è diffusa. Questo dà agli Stati Uniti un «privilegio esorbitante», come lo aveva definito Giscard d’Estaing in un’altra epoca: la politica monetaria degli Stati Uniti influenza i prezzi degli strumenti finanziari mondiali e i tassi di cambio, gli altri Paesi sono costretti a subirla. Ma non solo. Se ci dovesse essere una nuova crisi, per esempio, le banche centrali del resto del mondo, come è avvenuto nel 2008, avrebbero bisogno di richiedere prestiti in dollari alla Federal Reserve per soddisfare la domanda da parte delle banche dei loro Paesi ed evitare così instabilità. Ma ottenerli oggi non sarebbe scontato: dipenderebbe dalla volontà di cooperazione degli Usa.

Il dominio del dollaro non è un problema nuovo ma diventa preoccupante in una situazione in cui l’indipendenza della Federal Reserve viene messa in discussione dal presidente Trump e in cui gli Stati Uniti hanno cambiato rotta, rinunciando ad essere il pilastro della cooperazione internazionale e percorrendo la strada della guerra commerciale e dei cambi. Come può funzionare il sistema finanziario internazionale se il Paese che ne è al centro, gli Stati Uniti, sono diventati inaffidabili ed imprevedibili? Al G7 la discussione ha coperto problemi più generali, ma è emersa una simile preoccupazione per il mutato ruolo degli USA, guidati da un Presidente che di proposito crea una incertezza permanente sui temi del commercio internazionale e non si fa promotore di soluzioni cooperative su tutte le altre questioni importanti, dalla geopolitica all’ambiente. La nuova stagione europea si apre in questo contesto. Non sfugge a nessuno che se l’Europa fosse piu coesa e capace di approfondire la sua unione economicaepolitica potrebbe assumere un ruolo maggiore nel mondo e anche l’euro potrebbe ambire ad avere un ruolo internazionale. Rimane schiacciata tra Stati Uniti, Cina e Russia ed è vulnerabile per via della sua fragilità politica nonostante la importante dimensione della sua economia. Pesano gli errori del passato e l’incertezza di oggi. Sul piano economico negli anni della crisi i Paesi dell’Unione non sono stati capaci di affiancare la Bce con politiche complementari per sostenere in modo più aggressivo l’economia. Oggi non bisogna ripetere questo errore tanto più poiché le banche centrali sembrano avere esaurito le loro “cartucce”. Ed è proprio su questo che la riunione di Jackson Hole dà un secondo messaggio particolarmente pressante per l’Europa. La politica monetaria da sola non riesce ad incidere più di tanto sull’economia. I tassi di interesse sono a zero (nel caso dell’euro-zona, quelli sulle riserve presso la Bce addirittura negativi) e i bilanci delle banche centrali sono più che raddoppiati dal 2008 come conseguenza degli acquisti dei titoli e operazioni speciali ma l’inflazione rimane debole e l’economia reale oggi rallenta. Se questo rallentamento dovesse tramutarsi in recessione non è chiaro in che forma potrà arrivare un ulteriore stimolo monetario e se avrà effetto. Abbiamo bisogno di affiancare la politica monetaria con riforme e di programmi ambiziosi di sostegno dell’economia. Ma è soprattutto importante rilanciare un messaggio di fiducia sul progetto europeo. Questa fiducia è la condizione necessaria a far ripartire gli investimenti per combattere l’avversione al rischio diffusa che fa sì che gli investitori tedeschi e olandesi preferiscano parcheggiare depositi a tassi negativi piuttosto che impiegarli in progetti più ambiziosi e paneuropei. Senza un progetto convincente che reimposti il dialogo tra Stati membri e che apra la porta a una maggiore condivisione del rischio a fianco di impegni per politiche nazionali responsabili, rimaniamo fragili e in balia delle scelte americane, oggi più che mai volatili e non cooperative. La conferenza di Jackson Hole ci ha ricordato che un mondo multilaterale più robusto non può poggiarsi esclusivamente sul dollaro. Ma se l’euro vuole competere come moneta internazionale, e l’Unione avere voce sui grandi temi globali ai tavoli dei G7 e dei G20, deve diventare una federazione più convincente in cui la moneta sia sostenuta dalla credibilità degli Stati membri e la politica guidata da valori comuni. L’alternativa sarebbe dolorosa. Il ritorno alle monete nazionali moltiplicherebbe la fragilità di oggi e lascerebbe ciascun Paese europeo alla mercé dei sussulti della politica americana.

Il secondo governo Conte nasce da due esigenze, collegate l’una con l’altra: fermare l’ascesa di Matteo Salvini, e consentire al personale politico del Movimento 5 stelle e del Partito democratico di conservare, o riprendere, il potere. I protagonisti dell’operazione hanno cercato di darle un generico retroterra programmatico – il pentalogo dei democratici, il decalogo dei pentastellati. Qualcos’altro sarà fatto nei prossimi giorni. Ma il tempo stringe, l’accordo s’ha da chiudere, e l’andamento delle trattative ha mostrato con chiarezza che il vero nodo non sono tanto le cose da fare quanto i nomi di chi le farà. Le due esigenze sono legittime: la politica è innanzitutto gestione del potere. Il problema, però, è fino a che punto le riterranno legittime gli italiani. La prima impressione è che l’elettorato possa esser diviso in tre parti. Diciamo per semplicità, e grossolanamente, che siano di uguale peso: un terzo ciascuna. Il primo terzo, convinto che con Salvini avremmo corso il rischio, come nel 1948, che i cavalli dei cosacchi si abbeverassero alle fontane di Piazza San Pietro, riterrà l’operazione «Conte due» non soltanto legittima, ma necessaria e anzi lodevole. Il secondo terzo la considererà sempre e comunque illegittima – o peggio, ripugnante. L’ultimo terzo infine, il meno ideologico, si metterà alla finestra a osservare come evolvano gli eventi, e se da tutto questo possa infine uscire qualcosa di buono pure per il Paese. Partendo da premesse tutt’altro che favorevoli – il «peccato originale» di esser nato da una spregiudicatissima operazione di potere; le numerose e profonde fratture che attraversano la sua maggioranza; il vento di destra che ha soffiato nel Paese nell’ultimo anno – il nuovo governo avrà il difficile compito di conquistare questo terzo blocco. Ora, è ben possibile immaginare che i tre terzi non siano distribuiti in maniera omogenea sul territorio nazionale. Che nel nord Italia – là dove il centrodestra governa le regioni, alle elezioni europee la Lega ha preso il 40% dei voti, e con Forza Italia e Fratelli d’Italia supera largamente il 50% – i favorevoli al gabinetto Conte siano meno d’un terzo, mentre gli ostili di più. E che la gestione del «terzo terzo», di conseguenza, in prossimità dell’arco alpino si faccia particolarmente delicata. Perché è evidente che governare il Paese lasciando l’Italia settentrionale all’opposizione è alla lunga – e forse pure nell’immediato – del tutto impossibile. Nella «questione settentrionale» sono soprattutto due le partite aperte: l’autonomia differenziata per Veneto e Lombardia (e per tanto versi anche Emilia Romagna) e, in generale, una politica di sostegno al mondo produttivo – misure pro-crescita, abbattimento della pressione fiscale, riduzione del costo del lavoro. Saggiamente, da quando si è aperta la crisi di governo il mondo economico italiano ha parlato piuttosto poco. Non certo per disinteresse, però, e tanto meno perché si fidi della classe politica. Al contrario, il silenzio sembra piuttosto celare il timore di scoprire, dopo un anno di sofferenza nella padella gialloverde, che quella giallorossa è brace. Un timore che le radici ideologiche originarie e il radicamento elettorale meridionale del Movimento 5 Stelle, uniti al baricentro visibilmente spostato a sinistra della nuova maggioranza, rendono tutt’altro che infondato.

Alcune cronache raccontano che Zingaretti, di fronte ai toni e alle pretese di Di Maio, avrebbe chiuso così il tempestoso incontro di lunedì notte col vicepremier e Conte: “Mi spiace, ma così non va. Non lascerò umiliare il mio partito”. Non un semplice scatto di nervi quanto – piuttosto – un cambio di passo col quale aprire, di fatto, una fase nuova. E così, ieri mattina, decidendo di scavalcare il nervosissimo capo politico del Movimento, Zingaretti avrebbe preso il telefono e chiamato il premier per fargli lo stesso discorso fatto in precedenza a Davide Casaleggio. M essaggio sintetico e chiaro: così non si va avanti, va bene un Conte 2, ma la richiesta che anche Di Maio resti al suo posto per noi è irricevibile. Conclusione: se queste sono le condizioni che pone il Movimento – e non solo l’interessato – allora sappiate che si corre verso il voto. E invece, sia come sia, ieri – da ora di pranzo in poi – il clima è cambiato: le riunioni sono riprese, l’ottimismo ha guadagnato campo e l’ipotesi di una conferma di Di Maio alla vicepresidenza ha cominciato a declinare, precipitando il capo politico nel più cupo sconforto. All’opposto, il Pd si rianimava: e si stringeva tutto intero – quasi un inedito – intorno al segretario. In realtà, per Zingaretti non è stato difficile decidere di sbattere i pugni sul tavolo. Il leader democratico, infatti, non ha mai fatto mistero di considerare le elezioni anticipate una seria ed evidente alternativa alla nascita di un esecutivo debole e pasticciato. Nel corso delle trattative quest’idea – certo – si è rafforzata, lasciando però crescere – parallelamente – una suggestione, una linea, che darebbe tutt’altro spessore alla nascita del governo giallorosso: provare a trasformare il rapporto con i Cinquestelle in una vera alleanza politica, con la quale sfidare Salvini e il centrodestra in tutte le prossime elezioni. L’operazione è ambiziosa, ma si nutre di alcuni dati di fatto incontestabili. Il primo: se si governa assieme – e non sulla base di un contratto ma di una chiara alleanza – poi ci si presenta assieme di fronte agli elettori. Il secondo: uscita dal governo, la Lega potrebbe ricontrattare un nuovo patto di centrodestra, così da presentare alle urne uno schieramento potenzialmente imbattibile. Il terzo: divisi, Pd e Cinquestelle perderebbero praticamente ovunque, e con qualunque sistema elettorale. Nell’idea di Nicola Zingaretti, la somma di questi dati di fatto porta a un’unica conclusione: il patto di governo col Movimento ha senso soprattutto se è propedeutico alla nascita di un nuovo bipolarismo. Non si tratta di un tema astratto, iper-politico, se solo si considera che – una volta insediatisi al governo – i giallorossi saranno attesi da tre difficili sfide elettorali (Umbria, Calabria ed Emilia-Romagna) in pochissimi mesi. Operazione ambiziosa e certo impossibile da realizzare col vecchio Movimento targato Di Maio-Di Battista. Ma qualcosa sta evidentemente cambiando con la premiership e il consolidamento di Giuseppe Conte. “Lui e Zingaretti si intendono a meraviglia”, fanno sapere da Palazzo Chigi. È anche da qui, forse, che nasce la nuova linea del Pd: puntare su Conte per indebolire Di Maio. Una linea, a dirla tutta, accolta con molto interesse nello stesso Movimento.