Il primo estremo del triangolo delle Bermude, dove rischiava di perdersi la crisi di governo, è la scarsa costumanza che i 5stelle hanno con le logiche della politica. In quel mondo si rischia puntualmente la rissa, per cui un piccolo gradino si trasforma in un baleno in un ostacolo insormontabile. Basta guardare al lessico usato in uno scambio in chat tra Elena Fattori e Paola Taverna. «Paola al tuo livello – esordisce la prima – non mi ci metto. Parla pure da sola così ti qualifichi per quello che sei. Io ti ignoro come il ronzio di una zanzara». Risposta della Taverna: «Tu al mio livello non ci puoi arrivare, per questo trasudi bile da tutti i pori». Chiosa finale della Fattori: «È sicuro che al tuo livello è impossibile per la sottoscritta. Ma da ora per me non esisti». Il confronto del «politicamente parlando» tra i grillini si svolge sempre su questi toni, sfiora sempre lo scontro. Così Luigi Gallo dice a muso duro al Dibba: «Faresti bene a star zitto». Mentre Roberta Lombardi, con una punta di malizia, rivolta a Giggino Di Maio, che rischia di non essere vicepremier, osserva: «Sono sicura che anteporrai l’interesse del Paese al tuo destino personale». Da queste parti la mediazione è un’impresa. Il secondo angolo, invece, è la «latitudine» rappresentata dalla lentezza con cui Nicola Zingaretti gioca la partita con il Pd e, pure da queste parti, i personalismi interni abbondano. Dal punto di vista politico la rotta verso l’accordo è stata decisa da giorni. Da quando, sabato, Dario Franceschini ha spiegato al segretario: «Nicola se non si fa questo governo e lasci campo libero a Salvini per sconfiggerci alle elezioni e prendersi il Paese, ne risponderai “in toto”». Non è difficile indovinare che il prezzo da pagare, nella logica del «grande elettore» di Zingaretti, sarebbero le dimissioni da segretario del Pd. L’altro passaggio è stato quando domenica, per far digerire la premiership di Conte, Matteo Renzi ha fatto sapere che una rottura non motivata delle trattative con i grillini lo avrebbe spinto in caso di elezioni a presentare una sua lista: «Se poi prendo il 4, il 6 o il 10%, a me va bene lo stesso, ma il Pd rischia di perdere tutti i collegi». Per cui al netto di cantanti e attori, è tutta la sinistra che, con lusinghe e minacce, si è mossa per spronare Zingaretti: da Franceschini a Delrio, da Veltroni a Enrico Letta; e ancora, vecchi nemici come Prodi e D’Alema si sono ritrovati sullo stesso versante, come pure avversari degli ultimi tempi come, appunto, Franceschini e Renzi. «Io e Dario – scherza quest’ultimo – ci detestiamo amabilmente, ma siamo professionisti e se nel campionato interno ci facciamo gli sgambetti, ai mondiali, ogni quattro anni, giochiamo con la stessa maglia». Solo che Zingaretti all’inizio era poco convinto, ha sempre avuto il suo staff dubbioso se non avverso all’accordo e Paolo Gentiloni nettamente contrario. Il predecessore di Conte a Palazzo Chigi giorni fa ha messo in dubbio la sua stessa presenza nel governo: «Dopo quello che mi ha fatto Renzi – ha detto Gentiloni – anche se me lo chiedi non entro». Ieri ha messo l’ultima mina: «L’idea di un Conte con due vicepremier non può andare». Una trappola dietro l’altra. Il terzo estremo del triangolo è dato dalla «longitudine» che riguarda il futuro di Di Maio, che tenta di difendere, o inventarsi, il suo ruolo. Zingaretti lo vorrebbe semplice ministro, mentre il leader grillino vorrebbe mantenere, è legittimo, i gradi di vicepremier. Tant’è che per aver dato fin dall’inizio l’idea di una trattativa tutta in discesa, Di Maio ha criticato pure l’«elevato» per antonomasia, cioè Grillo. «Beppe – si è confidato con i suoi – non conosce i tempi della politica». Giggino, in altre parole, avrebbe preferito un atteggiamento meno accondiscendente fin dall’inizio, anche se era il primo ad essere consapevole che l’epilogo era segnato. Con i suoi era stato chiaro già venerdì scorso: «Anche se volessimo tornare ad un’intesa con la Lega non avremmo i numeri. Una parte dei nostri gruppi parlamentari si staccherebbe e certo nessuno di noi si può permettere di tirare a bordo la Meloni, come ipotizza Salvini». L’altro ieri, poi, nella riunione a casa di Pietro Dettori, davanti a Castel Sant’Angelo, Di Maio ha quasi sfidato il suo «inner circle»: «Anch’io non sono entusiasta di un governo con il Pd, ma qualcuno ha in mente un’alternativa?». Silenzio tombale. Già, scartate le elezioni per non essere decimati, i grillini non hanno un’altra prospettiva. Per cui a Di Maio non è rimasto che tergiversare nella trattativa tentando di strappare il più possibile. Solo che essendo tutti i principali attori della «crisi» poco avvezzi a questo genere di cose – o per scarsa esperienza, o per dati caratteriali – in questi giorni si è spesso rischiata la rottura. Il varo del «Conte bis» sta andando avanti, solo perché, fatti due calcoli, tutti si sono accorti che, tirando in ballo i Promessi Sposi, a differenza di quello tra Renzo e Lucia, il matrimonio tra Nicola e Giggino «s’ha da fare»: l’annullamento alla vigilia delle nozze sarebbe pericoloso per entrambi. Tanto più che l’officiante, cioè Giuseppe Conte, a differenza di Don Abbondio, ha una voglia matta di celebrare il matrimonio: specie ora che ha ricevuto le benedizioni del Papa, di Donald Trump e di Ursula von der Leyen. Ecco perché tutti gli ostacoli, gira che ti rigira, sia pure con qualche ammaccatura e graffio, vengono superati. Il pomo della discordia, cioè la casella del ministro dell’Interno? Probabilmente lì andrà il capo della polizia, Franco Gabrielli, un personaggio su cui Salvini non potrà dir nulla: «è fatta», è il pronostico sicuro di Renzi. E i vicepremier? «Conte ha fatto una bella mossa – racconta il sottosegretario alla Difesa grillino, Angelo Tofalo – o se ne fanno due, uno nostro e uno del Pd; o non se ne fa nessuno». Magari, per colpa del dilettantismo o dei personalismi, la prospettiva di una rottura non è ancora del tutto scongiurata, ma non si può rompere in maniera plateale sulle «poltrone» e, soprattutto, la forza delle cose porta alla nascita di questo governo. Anche perché c’è chi comincia ad intravedere l’ombra di qualcuno dietro la «folle crisi» voluta da Salvini. «Ne abbiamo discusso – osserva uno dei consiglieri di Zingaretti, Roberto Morassut – dietro quella mossa c’è il consiglio di Bannon: un’operazione studiata per far mettere radici al sovranismo nel nostro Paese». Già, Salvini, la vittima designata di questo governo. Il leader leghista teme come la peste l’introduzione di una nuova legge elettorale proporzionale; nel contempo, almeno a parole, si consola con un’unica nota di merito. «La Storia – ha detto ai suoi – ci sarà grata. Nell’alleanza con noi i grillini hanno perso i voti di sinistra, mentre con il governo con il Pd perderanno i loro elettori di destra. Alla fine ci saremo liberati di questo vulnus democratico che sono i 5 stelle!». Cioè di quelli con cui, neppure tre mesi fa, giurava di voler governare per 5 anni.

Se vogliamo proprio trovare una formula, si può dire che quello che Cinquestelle e Pd stanno provando a far nascere è un «governo di necessità». È una necessità innanzitutto per le due forze politiche. Sono come due acrobati che camminano sul filo con un tizio che gli spara addosso. Devono per forza arrivare fino in fondo. Salvini ha incredibilmente sbagliato il primo colpo quando li aveva nel mirino, ora non possono dargli una seconda chance. Per questo alla fine, dopo una giornata convulsa, ancora una volta ieri hanno prevalso, come ogni sera, quelli che l’accordo lo vogliono fare; e così la trattativa, che Di Maio aveva portato a un passo dal fallimento, è stata riaperta da Conte, di cui il Pd si fida ormai di più. È inoltre un governo di necessità perché per un grande Paese è sempre meglio un governo che una campagna elettorale permanente. Per questo, dalla Merkel a Landini, in tanti hanno fatto conoscere la loro preferenza. E se Salvini se ne meraviglia, considerandolo un complotto straniero, non ha capito l’interdipendenza dei nostri tempi, che spinge giù lo spread ogni volta che l’intesa si avvicina, e induce perfino Trump ad augurarsi che «l’amico Giuseppi Conte» resti a Palazzo Chigi. S e alla fine nascerà, il governo sarà ovviamente fragile. Le due forze politiche, sommate, oggi non rappresentano la maggioranza del Paese. E questo sopratutto a causa del declino dei Cinquestelle, che escono con le ossa rotte dal rapporto con la Lega ma ciò nonostante non rinunciano a fare la voce grossa con il nuovo alleato, con il quale tentano di replicare lo schema precedente: chissà perché, visti i risultati. Ma è fragile anche il Pd. Il destino lo chiama ancora una volta a partecipare a un governo senza aver vinto le elezioni. Accade nei regimi parlamentari. Salvini aveva preso anche meno voti del Pd nel 2018, eppureèandato al Viminale. Il problema è se lo si fa bene o male. Se è per i ministeri che il Pd fa il governo, finirà col pagarla cara. Sarà invece capace di mettere in campo una classe dirigente larga e all’altezza del compito? I nomi di partito che girano in queste ore non lo sembrano. Ma per fortuna i decreti di nomina dei ministri alla fine li firma il Capo dello Stato. Se comprenderà che si apre una fase del tutto nuova, un punto di forza potrebbe invece diventare il premier. Conte sta per trovarsi nella rara condizione di fare il bis a maggioranza invertita. Ma lo schema dell’«avvocato del popolo», del non-politico che si mette super partes e media tra i due vice, non è replicabile. Non foss’altro perché i capi dei due partiti stavolta non saranno nel governo, Di Maio perché non lo è più, dovunque andrà, e Zingaretti perché non lo è ancora, e resterà fuori. Ecco perché l’ipotesi Di Maio vice premier è l’ultimo pomo della discordia sulla via dell’accordo. Oggi Conte, anche per gli elettori, è il vero leader dei Cinquestelle. Se guiderà il governo in questa veste, invece che come mediatore tra volontà altrui, l’esecutivo se ne gioverà. Del resto anche il M5S ne ha bisogno, per uscire dalla sua lunga fase infantile. Insomma, i due partiti devono fare di necessità virtù. Devono dimostrare nei fatti che non si mettono insieme solo per negare le elezioni anticipateaSalvini. Altrimenti falliranno in pochi mesi, una volta scampato il pericolo, e Salvini le elezioni finirà per averle comunque e per vincerle anche più facilmente, capitalizzando il loro insuccesso. Soprattutto devono convincere gli italiani che tutti i giuramenti di queste ore sul «bene del Paese» non sono solo vuota retorica, come quella che si sprecò quindici mesi fa, ma invece l’inizio di un ravvedimento operoso, di una stagione di serietà e di impegno, di molta responsabilità e poche chiacchiere. Finora non abbiamo ancora sentito parlare di deficit, di manovra, di tasse, di occupazione, dei rischi di stagnazione e delle speranze di ripresa. Se vogliono fare un governo, prima o poi dovranno occuparsene.

La strada verso il governo più debole e contraddittorio della nostra storia recente è scandita, nelle ultime ore, dal caso Di Maio. È lui l’ultima pietra d’inciampo e lo è già da un paio di giorni, mentre l’attenzione di tutti era attratta dal dilemma Conte-sì/Conte-no a Palazzo Chigi. Questione che ormai è risolta, grazie soprattutto agli appoggi internazionali che il presidente del Consiglio si è abilmente conquistato. Prima Macron e Angela Merkel, grati per l’appoggio italiano (senza i leghisti) a Ursula von der Leyen nella famosa votazione di Strasburgo. Adesso persino Trump, il re dei sovranisti: segno che a Washington c’è qualcuno che non vuole regalare l’Italia all’asse franco-tedesco o magari alla Cina e preferisce il male minore rispetto ai rischi di instabilità (peraltro il passo della Casa Bianca suona sconfessione per la Lega: Salvini si era illuso di avere dalla sua gli americani, ma gli oscuri traffici con Mosca lo hanno danneggiato in misura decisiva). Dunque, il caso Di Maio. L’uomo pone condizioni e lavora per sé, dopo essersi nascosto nell’ombra di Conte. In realtà siamo davanti a uno psicodramma: colui che reclama la vice-presidenza unita a un ministero di primo piano — in principio il Viminale, poi la Difesa — è debole all’interno dei Cinque Stelle come mai in passato: ne è ancora il capo, ma in modo più apparente che sostanziale. Se non esce dalla crisi con un rinnovato potere personale da mettere sulla bilancia, il suo destino nel movimento è segnato. E si capisce: appartiene alla stagione passata, quella del patto con la Lega, inoltre è sospettato di mantenere un filo con Salvini e di non essere insensibile alle tardive proposte del suo ex alleato. Fintanto che Conte era in bilico come premier successore di se stesso, Di Maio aveva un ruolo. Adesso però il Pd tratta con l’avvocato del popolo o direttamente con Casaleggio le questioni che riguardano i 5S. Ecco perché Di Maio si agita: vuol dimostrare di essere ancora indispensabile, ma soprattutto cerca di sfuggire alla fine politica decretata in qualche oscuro tribunale grillino, magari dopo le forche caudine via web. L’insistenza sulla carica di vice-premier è emblematica. È lo sforzo più psicologico che politico di tornare idealmente all’epoca d’oro della mezzadria e del binomio Salvini-Di Maio sotto l’ombrello di Conte: il premier espresso dai 5S ma in qualche misura neutro, garante del contratto. Oggi è tutto cambiato. Il Pd alla fine accetta Conte a Palazzo Chigi, ma respinge la pretesa di Di Maio di considerarlo neutro, così da riprodurre il vecchio dualismo: due vice con Zingaretti al posto di Salvini. In via del Nazareno, dove all’inizio della crisi la parola chiave era “discontinuità”, hanno ceduto su tanti punti, ma non possono cedere anche su questo. Zingaretti non può essere il vice di Conte né da solo né tantomeno accanto al leaderino 5S in caduta libera. Anzi, dal momento che il quadro è chiaro e si è capito che il movimento non supporta più le ambizioni di Di Maio, il Pd forse otterrà almeno questo: un solo vice-premier (Orlando o Franceschini). L’esito del negoziato è malinconico, ma almeno il centrosinistra riuscirà a esportare un po’ di contraddizioni all’interno del M5S. In attesa, presto o tardi, di essere a sua volta bersaglio di qualche meteorite.

L’ ultimo spettacolo è Salvini vestito da Di Maio e Di Maio vestito da Salvini, e cioè il ministro uscente che entra, finalmente ma fuori tempo massimo, nelle stanze del governo e, abbandonata la tenuta da bagnante, indice conferenze stampa consacrate in giacca e cravatta, e il ministro restante che invece esce, incontro al futuro in maniche di camicia, affronta la crisi di governo in intonazione stagionale dalla spiaggia di Palinuro, e si porta un pezzo di personalissimo Papeete a Roma dove rincasa in bermuda e sneaker mano nella mano con la fidanzata, in quelli che ormai sono i murales di se stesso. Eccolo uno dei punti: essere o non essere firmato Novella Duemila. Salvini faceva il ganassa a torso nudo e birra media in disdegno degli alleati, li stalkerizzava in costume da bagno e si rigirava l’esecutivo come un pedalò, e adesso Di Maio parrebbe prendersi la rivincita sul primo che passa, cioè sul segretario piddino Nicola Zingaretti, che passa di vertice in vertice levandosi e rimettendosi la giacca, mentre lui, Di Maio, affina l’abbronzatura con l’ostentata noncuranza del più forte. E quando gli ricapita? Sì è fatto quattordici mesi da pecora, si gusta quattordici giorni da leone – il bell’inganno dell’orsacchiotto – fa i capricci come Napoleone a Borodino, e dopo un capriccio ce n’è un altro, e Zingaretti dice no, questo no e va bene sì, e poi di nuovo no e va bene sì. Tutto quanto, però, a prima vista. Perché è soltanto un gioco dei mimi, se qualche cosa di epocale resterà dei tempi gialloverdi è il sovvertimento disincantato delle fondamenta del pensiero, per cui il nuovo discorso sul metodo dopo Di Maio prevede che non si pensi dunque si è. Come Hidetoshi Nakata, che ai mondiali di calcio del 1998 s’era colorato i capelli di rosso per essere notato fra i compagni giapponesi, sennò indistinguibili a occhi occidentali, così Di Maio esordì in Parlamento, sei anni e mezzo fa, attingendo dalla collezione istituzionale del Postalmarket: vestito grigio e cravatta blu. In mezzo a quella comitiva di turisti fai da te del legislativo, fu semplicemente visibile, poteva sembrare uno degli altri (uno di noi), e infatti si guadagnò la vicepresidenza della Camera per meriti di presentabilità estetica e, siccome è l’immagine che conta, volle l’ufficio più ampio, perché il suo calibro fosse misurabile in metri quadri. Un anticasta abbigliato e alloggiato da casta: il resto è stata una conseguenza. Perché poi il passatempo viene bene con molti dei cinque stelle, ma con Di Maio è uno spasso. Uscire dall’euro, non uscire dall’euro. Chiudere l’Ilva non chiudere l’Ilva. Fermare l’oleodotto, non fermare l’oleodotto. Affondare i Benetton, ricuperare i Benetton. Sì alla flat tax, no alla flat tax. Contro i migranti, a favore dei migranti. E cioè, siccome fu evidente dal primo minuto l’essenza sclerotica del Movimento, un mappazzone di rancorosi, ognuno per il proprio rancore – il disoccupato, il comunista deluso, il fascista depresso, l’ambientalista radicale, il terzomondista, il giustizialista, il terrapiattista nelle varie declinazioni, da anti vaccini a pro sirene eccetera – e insomma, in quella corrida di idee bislacche era inevitabile affidarsi a uno che di idee non ne avesse manco mezza, e potesse prendersele tutte in leasing. A uno che non pensasse e quindi fosse. A uno come Di Maio, che con l’eleganza del paso doble scivola di qui e di là, dove serve, dove è più opportuno, in grisaglia come un passepartout: riveste quello che vuoi, è l’attaccapanni. Fu pertanto scontato che il più spettacolare tradimento della filosofia classica del grillismo (ehm) prevedesse una sfilata dimaiesca: noi ce lo ricordiamo il protervo sarcasmo di Beppe Grillo quando gli si chiedeva chi fosse il leader del Movimento, e lui diceva Ciro! È mio figlio Ciro! E poi con sprezzante paternalismo ci dichiarava mummie, morti, perché non capivamo che la rivoluzione era l’assenza di leadership, il capo era il popolo, solo il popolo era il capo del sovvertimento sociale del vaffanculo. Poi, trullalero trullalà, ecco il capo: Di Maio. Chi se non lui, l’attaccapanni? Eccolo camuffato da folla oceanica. E infine, per tornare ai giorni di ora, eccolo camuffato da Salvini. Fa a Zingaretti quello che fu fatto a lui, ma è paso doble, è esposizione universale, come sempre tutto gli passa sopra la testa, lui è perché non pensa: l’intesa col partito di Bibbiano è stato presa a Bibbona a casa di Beppe Grillo, Zingaretti ha gettato le basi della trattativa al telefono con Davide Casaleggio, il premier Giuseppe Conte si è guadagnato la stima del Quirinale e della Associati nel solco di un’antica verità: poco se si valuta, molto se si paragona. E adesso ai Cinque stelle serve di raccattare il raccattabile, e se tocca prendere un po’ per la collottola il Pd hanno l’uomo giusto: gli si accorciano i pantaloni, lo si spedisce sotto l’ombrellone, lo si ingozza di vanagloria, lo si salvinizza quanto basta. Così come da capo politico doveva inscenare la svolta moderata, adesso da capo della trattativa deve inscenare la svolta del guappo. È sempre tanto giovane e sempre tanto disponibile: avrà di nuovo il giusto compenso.

Per difenderlo, i suoi amici nel Movimento Cinque Stelle lo paragonano a Jessica Rabbit, la vamp del cartone animato, quando dice: «Io non sono cattiva. È che mi disegnano così». Nei panni del sabotatore di un governo tra grillini e Pd, Luigi Di Maio non si riconosce.

Eppure, negli ultimi giorni sono cresciuti i sospetti che sia proprio lui, orfano dell’alleanza con Matteo Salvini, a mettere i bastoni tra le ruote a un nuovo esecutivo guidato da Giuseppe Conte. Forse non ha capito, o magari ha capito tutto. Ma la sensazione è che non si sia accorto che la crisi di Ferragosto aperta dal suo ex alleato era un campanello di allarme anche per lui; oppure che non voglia rassegnarsi all’evidenza. Di certo, Di Maio ha continuato a parlare e a muoversi come se non si fosse aperta una fase nuova: dentro e fuori dal M5S. Al punto che è sembrata la sua ultima battaglia per sopravvivere: personale, prima che politica. Nell’incontroaquattr’occhi dell’altra sera col segretario del Pd, Nicola Zingaretti, gli ha chiesto senza troppi complimenti Viminale e vicepremierato: cariche da agitare come simbolo del suo immutato potere. Per alcune ore ha bloccato la trattativa, provocando malumori nello stesso Movimento. E ancora ieri non era chiaro se la voglia di conservare almeno il ruolo di vicepremierritarderà un’operazione già complicata. Il Pd ha deciso di trattare direttamente con Conte. E da Palazzo Chigi è arrivata la precisazione che ha smentito la vulgata grillina secondo la quale Di Maio non aveva chiesto nulla. «In presenza del premier Conte», hanno riferito fonti della presidenza, «non è mai stata avanzata la richiesta del Viminale per Di Maio». Come dire: se lo ha fatto in altra sede non possiamo saperlo. Comunque sia, Salvini si prepara a passare all’opposizione, forte di un gruzzolo di consensi che per ora lo mettono al sicuro da rese dei conti interne. Di Maio sembra deciso a rimanere nell’esecutivo battendosi contro un ridimensionamento; e con la macchia di chi ha dimezzato i voti del M5S alle Europee, dopo la grande vittoria alle Politiche del 2018. Chi continua a sostenerlo dice che «nel governo Luigi ci deve stare. Altrimenti il Movimento si spacca». Avversari come Roberta Lombardi sussurrano velenosamente: «Sono sicura che il nostro capo politico non antepone se stesso al Paese…». Ma Di Maio può contare su gruppi parlamentari scelti da lui, sull’odio del M5S per il Pd, e su una spiccata spregiudicatezza. Anche se i toni ruvidi verso Zingaretti vengono spiegati con il terrore di bruciarsi di nuovo le dita, dopo l’esperienza traumatica con Salvini; e dalla consapevolezza di dover guidare un Movimento in una fase di declino e di incertezza. Eppure, era da dicembre che i vertici lo vedevano affaticato dal doppio incarico di ministroe«segretario» del M5S; e ossessionato dal protagonismo leghista. L’ascesa progressiva di Conte è stata figlia di un calcolo: «Luigi» si fa mangiare in testa da Salvini. Va puntellato. Formalmente reggeva lo schema dei «dioscuri» che dettavano l’agenda al premier. In realtà, era cominciata un’emancipazione dai due contraenti del populismo di governo. «Se cade Conte, cadono anche Di Maio e Salvini», si sentiva dire a Palazzo Chigi all’inizio del 2019. E il successo in extremis nelle due trattative con la Commissione europea sui conti pubblici ha fornito al premier credito internazionale. Di Maio e il suo alter ego leghista, invece, hanno continuatoasottovalutare la proiezione continentale: sebbene Di Maio abbia appoggiato Conte quando ha contribuito in modo decisivo all’elezione della presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen. Tutto è stato oscurato dalle continue liti e rappacificazioni tra i due vice, col portavoce grillino Rocco Casalino che confessava di essere «geloso del rapporto profondo tra Luigi e Matteo». Quando però a ridosso di Ferragosto si è consumata la crisi in Senato, Di Maio è sembrato una comparsa enigmatica. Salvini, a destra di Conte, scuoteva la testa e mandava bigliettini, annichilito dalle bordate di quell’«avvocato del popolo» scelto per ubbidire ed eseguire; e trasformatosi di colpo in un nemico, interlocutore del Quirinale e delle cancellerie. Quando ieri il capo leghista ha definito Conteeil suo possibile esecutivo «un governo di Mario Monti bis», non sapeva di fargli un complimento involontario. Ma quella definizione maliziosa ha confermato anche che non sarà lui a prendere in mano i Cinque Stelle; che la leadership di Di Maio sarà risucchiata sempre più all’esterno dell’esecutivo, tra tensioni interne crescenti. In fondo, il suo tentativo di prendersi il Viminale mirava a perpetuare vecchi rapporti di forza. Inseguiva il miraggio di recuperare milioni di voti «facendo come Salvini». Sarebbe stata la vendetta per il «tradimento» del leader leghista, accusatoaPalazzo Chigi di avere verso Di Maio un atteggiamento «da sciupafemmine». Lo strappo del Carroccio ha sgualcito anche il vicepremier grillino. Ha reso velleitaria l’opa sul ministero dell’Interno: quasi fosse un piedistallo per moltiplicare i voti, e non un dicastero di garanzia da proteggere dal sospetto di essere al servizio di un leader. La richiesta di crisi, elezioni e pieni poteri da parte di Salvini, a guardare bene, è l’equivalente dell’ipoteca di Di Maio sul futuro governo. Errori di valutazione simmetrici; e elementi di riflessione su quanto possa essere effimero e volatile il potere dei populisti perfino nell’era dei populismi.

«I ragazzi? Fanno paura, sembrano robot» Lo psichiatra Vittorino Andreoli: insicuri e assuefatti dalla Rete, vivono senza regole.

SI È IMMERSO nei casi di cronaca nera più importanti d’Italia. Ma davanti alla violenza dei giovani di oggi rimane ancora colpito. Lo psichiatra Vittorino Andreoli (in uscita il 3 settembre col nuovo saggio ‘Il futuro del mondo’ di cui dice: «Ho avuto voglia di andare a trovare i miei bauli dove nascondevo gli scritti. Ero un giovane studioso e volevo raccontare storie: ma uno scienziato non poteva dire ‘scrivo racconti’, era patologico. Ora rivelo quello che non ho detto fino a oggi: ho avuto un po’ di pudore a farlo») affronta la crisi dei giovani. Professore, che rapporto c’è tra l’aggressività (spesso del branco) e il boom della realtà virtuale? «Il branco è patologico, perché ha un leader; mentre il gruppo di pari età non ce l’ha. I giovani vivono nell’insicurezza e il mondo digitale non ha un’etica: questo mix è esplosivo. La vita umana, invece, ha una morale». Un ragazzo di 23 anni che accoltella a morte il coetaneo rivale d’amore e chiede ‘scusa’ su Facebook, come se facesse il discorso di ringraziamento agli Oscar, cosa le fa pensare? «Che non è un pentimento. Dice ‘ho fatto una cazzata’ e non ‘ho soppresso una vita’. Questi giovani non sanno cosa sono la morte e il valore della vita. Quando mi occupai del caso Pietro Maso, non capivo cosa lo aveva portato a sterminare la famiglia. Così andavo in carcere a trovarlo ogni sera. Una volta lui mi disse: ‘Professore, avrò fatto una cazzata, ma lei non può venire qui ogni sera a stressarmi’. La lampadina si accese: per lui la famiglia era un salvadanaio. I giovani d’oggi sono esempi robotici». Il futuro che la rivoluzione digitale ci prospetta (camerieri robot, colonie su Marte, auto volanti) le piace? «No, è la fine della civiltà occidentale. Il cervello umano ha possibilità incredibili, mentre il cervello digitale non ha sentimenti, odio, amore: mi sembra follia. Stiamo trasferendo nei processori ciò che dovrebbe fare il nostro cervello, spegnendolo sempre di più». I giovani sono condannati al tunnel dei social o c’è una via di salvezza? «Sono preoccupato per i giovani. Si attaccano a questo mondo colorato, che è facile. Il vantaggio del web è che se c’è qualcosa che non ci piace, clicchiamo e scompare. Nella vita concreta è un po’ più complesso. O i computer servono di aiuto al cervello umano, come nella scienza, o lo sostituiscono». Giovani che ‘escono’ di casa inmedia a 34 anni, che passano ore e ore sul web, che sono iper difesi (e allo stesso tempo ignorati) dai genitori. Che figli stiamo crescendo? «Educare le nuove generazioni è il problema più importante della società. Eppure nei contratti politici non esiste una strategia specifica, la vera emergenza dell’Italia. I ragazzi non hanno futuro. Non si parla più di droga e la gente muore di più che in passato: i nostri figli sono abbandonati». Anche le aggressioni ai medici sono in aumento. «Non c’è più rispetto, ognuno ritiene di poter ottenere con i pugni». Lei è mai stato minacciato o aggredito durante il lavoro? «Mai. Sono entrato in un manicomio per la prima volta nel luglio 1959 e non ho mai legato un malato. Se devo farlo, cambio mestiere. Non sono mai stato respinto, neanche verbalmente, pur occupandomi sempre dei casi più spinosi. Il segreto è conoscere la disciplina e sapere come usare i farmaci». Tra tutti i matti, come ama definirli lei, e assassini, che ha avuto in cura, ce n’è stato uno di cui ha avuto davvero paura? «Solo paura no, ma fascino, che è attrazione più paura, sì. Andavo a trovare spesso in cella Donato Bilancia (uccise 17 persone in sei mesi e fu condannato a 16 ergastoli, ndr) e lui mi disse: ‘Professore, ci sono due persone che stimo nella vita. Il primo è chi mi ha insegnato a rubare, un grande scassinatore. La seconda è lei’». I ragazzi di oggi, cattivi e frustrati, le fanno paura? «Ho assistito ai crimini più efferati e la prima domanda al killer era: cos’è per te la morte? La risposta era: ‘Ma cosa c’entra? Non lo so’. Conoscono solo il telefonino, le scarpe nuove. Fanno paura perché compiono atti inaccettabili: uccidere è un mezzo per togliere un ostacolo, fare gli ‘eroi del sabato sera’ è una modalità per riempire lo spazio nei social. Ma è possibile raccontare un delitto al social e non al padre o al prete?».

Se l’omicida si affida al finto tribunale dei “followers”. Gianluca Nicoletti sulla Stampa a pagina 15.

 

Accanto, un fotogramma del video (girato mentre guidava) di Alberto Pastore, 23 anni, pochi minuti prima di essere fermato dai carabinieri per l’omicidio di Yoan Leonardi, suo coetaneo e amico;sotto, il post pubblicato su Facebook con il quale il giovane cercava di spiegare l’omicidio 3 I l post in cui i Alberto Pastore giustifica come “una cazzata” di aver ammazzato un amico a coltellate ieri pomeriggio apriva ancora la sua pagina Facebook. Lo screen shot di quello stesso messaggio, già da ore, stava circolando per tutte le testate on line, come reperto di un omicidio, ma restava dove il giovane assassino l’aveva pubblicato, perché chiunque potesse condividerlo e commentarlo. Il “pacchetto” includeva anche la sua story su Instagram dove sembra che racconti una partita di calcetto invece che un accoltellamento. Alberto Pastore questo voleva e questo ha ottenuto. Alle 18.30 già più di 1800 persone avevano commentato quel suo post su Facebook dove l’accoltellatore semina tenerezze per papà, mamma, nonno e zia. Si affida al tribunale farlocco dei suoi followers, sperando forse che questo possa rendere altrettanto inconsistente l’aver sbudellato un ragazzo come lui. Sembrava di vedere terra la sagoma del cadavere ancora disegnata col gessetto: commentavano gli indignati che invocavano pene atroci, assieme a quelli che sostenevano che i due potevano anche mettersi d’accordo per una multiproprietà di quella ragazza, che sicuramente avrebbe gradito… E giù con la trita filosofia del machismo da tastiera di quei tanti irascibili e fragili orsacchiotti di peluche, con le ciglia ad ali di gabbiano e il coltello in tasca. Ecco un esempio della stirpe dei viaggiatori nel tempo digitale, abili nello sfaccendume che trasforma in un aborto di narrazione epica ogni scatto di smatphone. Uomini senza età perché non contaminati dalla storia, esattamente come Alberto Pastore, che nella foto di status indossa spavaldo i Rayban vintage col cerchietto, ma non sa che già erano da coatto quando li inalberavano i sambabilini degli anni 70. Anche in quegli ambienti tra i suoi coetanei giravano coltelli e anche allora si parlava di “delitti inutili”. Nemmeno questo saprà il nostro Pastore, il passato non gli appartiene; il suo domani lo misurerà con i like al suo mesto romanzetto criminale.

Diventare un assassino vivendo come in un reality. La «cazzata per amore» si chiama omicidio, anche se il ventitreenne Alberto detto Alby non lo chiama così. Pochi minuti dopo avere ucciso il suo coetaneo Yoan pubblica un post su Facebook e fa una diretta Instagram. Racconta il fatto come fosse qualcosa che riguarda solo lui: un’esagerazione romantica. Sono andato a leggere il post, era ancora lì (più tardi sarebbe stato rimosso); e non so dire se faceva più impressione la confessione del crimine in quel contesto o le decine di commenti piovuti sotto. Ispirati, naturalmente, alla prospettiva più istintuale e più truce: legge del taglione per conto terzi. L’insieme risultava delirante. Nelle vecchie annate di cronaca nera si sarebbe parlato, in un caso come questo, di «delitto passionale»: con una sfumatura di melodramma o di mito arcaico dei rapporti di forza, spesso insopportabilmente misogino. Buona, al più, per farne letteratura e cinema. Ma qui non c’è né melodramma né mito. C’è un’esclamazione idiota – «Eh ragazzi!» – che finisce in una storia Instagram. Alberto prima minaccia il suicidio, poi aggiunge: «Adesso non so se Yoan ci sarà ancora, ma il mio obiettivo era quello di far vedere alla gente che per amore non bisogna mai intromettersi nelle faccende altrui». Il moralismo sui social viene facile, e non serve a niente. È forse più impegnativo interrogarsi, in astratto, sulla formulazione (inquietante) di quel pensiero: «Il mio obiettivo era quello di far vedere alla gente». Rileggete tre volte. Quale obiettivo? Quale gente? Prima che a sé stesso e alla vittima del suo gesto criminale, rende conto a un presunto pubblico: «ho talmente tante cose da dirvi» – prima che a sé stesso. Ma a chi sta parlando? Qual è la platea del reality della sua vita? Esiste? Esisteva, intanto, la realtà della vita di Yoan. Che – sostiene Alby dal suo palco-smartphone – «ha sbagliato tutto». Paolo di Paolo su Repubblica a pagina 18

Non gli hanno detto «sei fuori»: gli hanno detto «vai dentro». Non è uscito dalla casa: è entrato in galera. Non l’ha accolto Barbara D’Urso: ma una volante dei carabinieri. Tutto fa pensare che il 23enne Alberto Pastore pensasse tuttavia di essere dentro un reality-show, visto che dopo aver ammazzato il suo migliore amico e coetaneo Yoan Leonardi non si è costituito alle forze dell’ordine, ma ai social network. Comunque è andata così. I due erano entrambi di Cureggio, 2600 abitanti vicino a Borgomanero ein provincia di Novara, in Piemonte, e a quanto pare erano amici da sempre. A un certo punto si sono trovati in un disco-pub a Borgo Ticino (Novara)in zonaCampagnola di Comignago, a due passi dal Lago Maggiore, in una struttura che un tempo ospitava il museo dell’aeroplano e un’ex discoteca. Non è chiaro se abbiano cominciatoa discutere elitigare dentroil pub o se si siano dati appuntamento direttamente fuori, nel parcheggio. Oggetto: una ragazza e dei comportamenti di Yoan che ad Alberto non erano piaciuti. Il padre di Joan racconterà che suo figlio stava semplicemente cercando di riallacciare una relazione tra Alberto e la sua fidanzata, insomma faceva da paciere, o ci provava. Sta di fatto che i due sono venuti alle mani ed è spuntato un coltello con cui Pastore ha infierito tre volte sull’amico, lasciandolo in una pozza di sangue ma ancora vivo. Erano circa le due di notte. «HO FATTO UNA CAZZATA» Alberto Pastore, detto Alby, nel frattempo era già ripartito con la sua Kia Ceed bianca e aveva cominciato la sua confessione: rigorosamente ai social. Prima su Facebook,e riportiamoil testo integralmente perché sembra un commiato da reality show: «Voglio scusarmi con tutti, ho fatto una cazzata per amore, ho scoperto troppe cose dal mio migliore amico, non potevo continuarein questomodo, sono stato preso in giro… Nella mia vita ho commesso troppi errori e il mio errore più grande è questo… Mi mancherete tutti… papà ti voglio solo dire che sei stato un padre fantastico, anche a te mamma che ti sei sempre preoccupata ultimamente, Erika mi sei stata di grande aiuto… Voglio ringraziare con il cuore Valentina Cometti che mi e stata vicina sempre da quando ci conosciamo da bambini, voglio ringraziare mia zia Patrizia, mio nonno… Ele persone chemi volevano bene e che sicuramentemolti nonmi riconosceranno più come prima… È stata colpa di Yoan Leonardi… Mi dispiace a tutti». «SI È INTROMESSO» Poi, dopo, solo dopo, Pastore aveva chiamato la sua fidanzata («Ho ucciso Joan») che aveva chiamato subito il padre di Alberto e da qui la chiamata al 112 e al 118.Ma quando i sanitari del 118 sono arrivati sul posto, nel parcheggio, Joan era già in condizioni gravissime ed è morto poco dopo. Alberto non poteva esserne sicuro, ma in ogni caso era impegnato a postare dei brevi video («Instagram stories») nei quali si vede solo un pezzo dei suoi jeans mentre guida la macchina e si sente la sua voce: «Eh, ragazzi, come ben sapete io hofatto una cazzata e adesso sto pensandoacome suicidarmi perché non posso più… non potrò mai vivere con questa cosa che mi tormenterà… con tutte queste decisioni che son state fatte, tutte le cose che sono successe… a me dispiace più che altro per Yoan, per Sara, per tutte le persone che mi conoscono». «Adesso non so se Yoan ci sarà ancora, ma il mio obiettivo era quello di far vedere alla gente che peramore non bisognamaiintromettersinelle faccende altrui. Anzi, è meglio pensare a sé stessi, nonintromettersi nelle relazioni e farsi la propria vita senza tenere nascosto tutto a migliore amico, senza … cioè, quello che ha fatto Yoan è tutto sbagliato, dalla A alla Z, perché, allora: adesso è difficile spiegarvi, perché ho così tante cose da dirvi che non so più da come ove cominciare. Io adesso ho in mente questo pensiero, di averefatto questa cazzata – perché lo ammetto di aver fatto una cazzata – ma non so più come spiegarmi». RAGAZZO NORMALE A suo modo stava scappando: era entrato al casello di Castelletto Ticino dell’Autostrada A/26 (Genova-Gravellona) e aveva imboccato al corsia per Milano. I carabinieri di Arona l’hanno intercettato, lui ha provato ad accelerare ma poi si è schiantato contro la spalletta di una galleria già in territorio lombardo, nel comune di Vergiate. Illeso. Manette. Questo è Alberto Pastore, ragazzo normale per definizione, romantico, appassionato di videogiochi,vagamente grillinoeantileghista. L’altro era Yoan Leonardi, ragazzo davvero tranquillissimo, fidanzato da due anni, appassionato di calcio francese e dell’Olimpique Lyone, suo migliore amico.

Gli italiani, ad ogni elezione, spingono per essere governati in ogni sede dal centrodestra e il Palazzo scodella il governo più a sinistra della storia della Repubblica. Succede perché tre perdenti di successo stanno per stringere il patto del diavolo. Sono Luigi Di Maio (prese i Cinque Stelle al 34 per cento e li ha portati sotto il 15), Giuseppe Conte (prese il Paese che cresceva all’1,6 per cento e lo ha portato a zero) e il duo dei separati in casa Zingaretti-Renzi bocciato in tutte le ultime elezioni. Parafrasando la frase di un celebre film sulla stampa viene da dire: «È la democrazia, bellezza, e tu non puoi farci niente». Già, è proprio così: non possiamo farci nulla, perché in democrazia – di fatto – non il popolo, ma il Parlamento è sovrano (oltre che paraculo). Questa soluzione infatti accontenta tutti (loro): si liberano di Salvini, evitano di dover andare a casa e tornare (per alcuni iniziare) a lavorare a un decimo dello stipendio che percepiscono oggi, faranno man bassa delle importanti nomine che spettano al governo nei prossimi mesi. Se lo si legge con gli occhiali della sola politica italiana, questo epilogo appare incomprensibile. Probabilmente per tentare di capirci qualcosa bisogna inforcare lenti diverse, diciamo di tipo internazionale. In molti, fuori dall’Italia, hanno lavorato per saldare la frustrazione dei Cinque Stelle alla voglia di rivincita, e di potere, della sinistra. L’imperativo, oltre confine, era di fermare Salvini e impedire che il centrodestra in generale, e in particolare quello attuale a guida leghista, si impadronisse del Paese attraverso le urne e potesse addirittura decidere il capo dello Stato che nel 2022 succederà a Mattarella. Tutto il resto – mi riferisco alla commedia in corso nei palazzi romani – è solo contorno. Questo nuovo governo sarà aiutato da chi l’ha voluto – l’Europa e la comunità internazionale – più di qualsiasi altro fino ad oggi. Per questo, al netto della sua consistenza e delle divisioni del Pd (e dei Cinque Stelle), durerà più di quanto prevedono gli sconfitti e suggerisce la logica. Se solo Salvini non si fosse messo contro tutto e tutti, se non avesse spaventato con i suoi proclami sgangherati il mondo intero, probabilmente oggi saremmo qui a festeggiare il ritorno alle urne e la liberazione dal grillismo. Peccato, è stata una grande occasione persa e non penso proprio, conoscendo gli italiani, che saranno le piazze – come da lui stesso pronosticato – a riportare in plancia il Capitano. Che bene farebbe, a questo punto, a rivedere la sua ostilità a un centrodestra unito e moderato.