E ra inevitabile che gli sviluppi della nuova inchiesta di Genova sui controlli di sicurezza sulla rete autostradale riaprissero la ferita, che tarda a rimarginarsi dopo oltre un anno, delle 43 vittime del crollo del ponte Morandi. E si tirassero dietro la polemica sulla “revoca” della concessione alla società Atlantia, controllata dai Benetton, che i 5 Stelle vorrebbero estromettere dalla gestione di oltre tremila chilometri di autostrade italiane, anche prima che ne venga accertata l’eventuale responsabilità penale, scelta a cui la Lega nel precedente governo e il Pd in quello attuale sono contrari.

A lla fine della trattativa sul programma che ha portato alla nascita dell’alleanza giallo-rossa e del Conte-bis, il compromesso è stato trovato sul termine “revisione”; di tutte le concessioni, e non solo di quella affidata ai Benetton. Ma dentro la “revisione”, ovviamente, ci può stare anche la “revoca”: e la prova dell’ambiguità scivolosa di questa intesa s’è avuta il primo giorno di vita del nuovo esecutivo, quando la nuova ministra delle Infrastrutture De Micheli ha detto che in base ai nuovi accordi la revoca era stata accantonata, e Di Maio ha subito replicato che non era affatto così. Ma ora che la nuova inchiesta di Genova rivela tracce di un sistema per “ammorbidire” i controlli, anche quelli di funzionari zelanti che non avevano esitato a mettere in guardia i gestori dai pericoli di nuovi incidenti causati dalla scarsa manutenzione, la politica mostra il suo lato debole. Perché non basta dire che la Società Autostrade dev’essere esautorata al più presto, prima di un’eventuale sentenza di condanna. Bisognerebbe chiedersi perché, all’atto della privatizzazione della parte maggiore della rete, fu deciso che lo stesso soggetto che si faceva carico della gestione avrebbe assicurato anche i controlli che sarebbero spettati allo Stato. Con la conseguenza che chi si era assunto il compito di garantire la circolazione dei mezzi, in un Paese in cui le merci di qualsiasi tipo viaggiano prevalentemente su gomma, si sarebbe dovuto assumere quello di fermarla o deviarla, secondo le necessità. Se però si riflette che l’Italia, e soprattutto il Nord Italia, sono territorio di transito di carichi destinati a mercati internazionali, si può capire quale delicatissimo incarico veniva delegato alla società candidata a succedere allo Stato nella gestione di una delle più malandate reti autostradali d’Europa. Basta parlare con un ingegnere addetto a questo genere di verifiche per capire quanto è difficile il responso: ci sono viadotti costruiti quando erano ancora da venire gli odierni super autotreni, i cosiddetti “trasporti eccezionali”, dal peso inimmaginabile fino a trenta, venti o perfino dieci anni fa. Cosa fare: chiudere uno o più tratti di un percorso, lasciarlo aperto alle sole automobili, limitandone il traffico commerciale? E dove mettere l’asticella del limite di sicurezza? Più alta o più bassa? La nuova inchiesta di Genova, scaturita nella stagione infuocata del dopo-crollo dalla denuncia di funzionari che consideravano inascoltati i loro allarmi, scava in questo terreno franoso. Perché è comprensibile, dopo quanto accaduto al ponte Morandi, che un funzionario in buona fede metta le mani avanti, lasciando ad altri la responsabilità di valutare il rischio. Così come è logico che al gradino superiore, chi deve valutarlo, metta in conto altro genere di valutazioni, connesse alle conseguenze – economiche e non soltanto italiane – della chiusura o dell’apertura intermittente di un tratto di autostrada ad alto scorrimento. Al di là delle polemiche sulla “revoca” e sulla “revisione” della concessione ad Atlantia, questo è il problema che Di Maio e Zingaretti dovrebbero affrontare. Uno Stato che non fa più lo Stato. Che si è ritirato dai controlli, facendo di chi gestisce il controllore di se stesso. Infrastrutture da rinnovare o rifare, per adeguarle alle mutate necessità e agli standard europei. Un compito enorme, con poco tempo a disposizione. Non è proprio il caso di sprecarne ancora in inutili battaglie di parole.

Se anche un partito strutturato come il Pd ha visto , nell’arco di pochi giorni, una riconfigurazione degli assetti di potere interni con il riemergere di Matteo Renzi in un ruolo centrale, altrettanto tellurici saranno i mutamenti in corso in un partito liquido, anzi “etereo”, come il Movimento 5 Stelle. Mutamenti che lo possono portare in tre direzioni diverse, o al limite, lo possono scomporre lungo queste tre direttrici. La crisi di agosto ha alterato i rapporti di forza interni al Movimento. Da un lato Grillo ha riconfermato la sua leadership, incontrastata. È bastato un post per invertire la rotta, abbandonando un decennio e più di contrapposizione netta al Pd . Uscito dal suo letargo, il Garante – questa la denominazione ufficiale della carica di Grillo – ha imposto in quanto “custode dei valori fondamentali dell’azione politica dell’associazione”, come recita l’articolo 8 della statuto, la sua linea a un riluttante Di Maio, Capo politico del M5s ma pur sempre sottodimensionato rispetto al fondatore che, in base alle norme statutarie (art.7), può sfiduciarlo quando vuole, salvo conferma della Rete. E si è visto quanto la Rete segua convinta le indicazioni di Grillo, dato che quasi l’80% degli iscritti ha approvato l’accordo con il Pd. Rimane però da capire se il Garante rientrerà in sonno oppure indirizzerà deciso il M5s verso quei temi post-moderni e post-industriali della green economy, della riconversione ecologica, della democrazia elettronica che hanno identificato, agli albori, i 5Stelle come partner ideale della galassia verde-ecologista e dei “partiti pirati” del centro-nord Europa. In questo caso il M5s non può che far deperire quell’atteggiamento anti-establishment e protestatario che lo stesso Grillo ha sollecitato per tanto tempo e che è stato la chiave di volta del suo grande successo elettorale. Solo che non tutti seguiranno il fondatore su questa strada. I giovani del Movimento allevati a populismo e antipolitica –Di Maio e Di Battista, per intenderci – si sentiranno probabilmente emarginati da questo ritorno alle origini, depurate dal Vaffa. Pur nelle differenze di stile, i dioscuri pentastellati vivono ancora la politica come una sfida all’establishment dal quale per ragioni diverse, caratteriali o culturali, si sentono esclusi. E se l’uno, Di Maio, si è comunque incistato nel palazzo tanto che non ne uscirà se non con un gruppetto di fedelissimi pronto a dar vita a una versione, in sessantaquattresimo , della democristiana “corrente del golfo” partenopea degli anni Ottanta, l’altro, Di Battista, animerà quel residuo di piazza antisistema – dai No-Tav angli anti-Vax – che non riesce a fare il salto a destra. (Benché saranno, inevitabilmente, risucchiati da quel mondo). Infine, il terzo pilastro su cui si regge la struttura pentastellata rimanda a Giuseppe Conte. Il presidente del Consiglio ha acquisito un ruolo politico che fino a qualche settimana prima nessuno gli riconosceva. Ora lo esercita sulla linea tracciata da Grillo. Ma la sua cultura politica e il suo stile (personale e politico) lo portano su posizioni più tradizionali e ”oggettivamente” centriste, in contrasto con i dioscuri. Lo stesso discorso di insediamento rifletteva una concezione “umanista” della politica con contorni comunque così ampi, per non dire, vaghi da poter accogliere consensi da molte parti. Non tarderanno molto gli orfani di Berlusconi a percepire una consonanza di accenti, e lo stesso vale per le anime perse del mondo cattolico-moderato, da sempre alla ricerca di un ovile e di un rilancio. Il neo-centrismo contiano ha bisogno di un po’ di tempo per lievitare, ma è alle viste. Il M5s sembra destinato ad assumere le sembianze della Gallia di Giulio Cesare, “divisa in partes tres” , senza però una guida in grado di tenerla tutta unita.

Quante strade dovrà percorrere la Cosa giallo-rossa, prima di essere chiamata “governo”? La risposta non soffia nel vento, come cantava il poeta. Ora che la nave è partita e deve in qualche modo navigare, dipende invece dalla fiducia che i nocchieri nutrono in se stessi e trasmettono agli italiani ancora storditi dalla crisi di Ferragosto. Dipende dalle parole e dai gesti degli alleati riluttanti, che da quando hanno avviato la “fusione fredda” si sforzano di dimostrare ai rispettivi elettorati la pervicace volontà di non farla diventare calda. Gli indizi d’una svolta si vedono: su questioni cruciali come le relazioni euro-atlantiche e l’immigrazione la “discontinuità” c’è davvero, finalmente declinata nei termini della responsabilà occidentale, e non più della sovranità putinista.

Ma “governo”, persino nelle esauste democrazie parlamentari e proporzionali, è assunzione di responsabilità generale. È piena consapevolezza di una missione condivisa. È comunità di destino. È messa in gioco di un progetto in cui si vince e si perde tutti insieme. Nel governo demo-stellato tutto questo ancora manca. Prevale una “malavoglia” quasi esibita. Va superata, perché in caso contrario rischierebbe di uccidere in culla il neonato. E già si profila il “giustiziere della notte”, che non per caso è proprio Renzi, lo spregiudicato scissionista che, dopo aver tenuto a battesimo il nuovo governo insieme a Grillo, ora si prepara a farlo morire, insieme a quel che resta della sinistra. Il presidente Conte, nonostante l’insospettabile tenacia che ha sfoderato nelle feroci “logomachie” parlamentari con il suo ex dante causa leghista, galleggia almeno un palmo sopra la sua maggioranza: considera esplicitamente “inappropriata” la sua attribuzione al Movimento Cinque Stelle. Il “CamaleConte”, appunto, che tuttavia non può continuare a fingersi di tutti e di nessuno. Di Maio, da quando l’embrione del nuovo governo ha dato i primi segni di esistenza in vita, ha pronunciato la parola Pd due sole volte. Come se in lui si fosse ormai incistata la sindrome velenosa del “partito di Bibbiano”, con il quale si governa turandosi il naso per non contaminarsi. Zingaretti è un po’ più generoso, perché insieme alla necessità capisce anche il pericolo, ma fatica anche lui a tirarsi dietro il suo partito, come dimostra lo strappo renziano, e a farsi piacere un partner che non perde occasione per riaffermare distinzione e distanza. Nell’ultima settimana, da Teresa Bellanova a Manlio Di Stefano, abbiamo sentito solo ministri e sottosegretari che, dai due fronti contrapposti, ribadivano che questa rimane “un’alleanza innaturale”. Con buona pace di D’Alema che pensa il contrario, e di Franceschini che parla di un esecutivo “incubatore di un nuovo progetto”. Se c’è, il “nuovo progetto” dovra venire a galla presto. La prova di questo deficit sta proprio nella risposta sdegnata che il Movimento ha riservato alla proposta dello stesso Franceschini nell’intervista a Repubblica: abbiamo sottoscritto un patto politico per il governo, ora facciamo un patto elettorale per le regionali. Coerente, nella logica di un pur fragile governo di coalizione. Contundente, nell’ottica di un M5S che pretende quindi mani libere. Al punto tale che tra i “gialli”, in una evidente eterogenesi dei fini, c’è chi interpreta quell’offerta del capo-delegazione dei “rossi” non come una sollecitazione per blindare l’alleanza, ma come una provocazione per spaccare il Movimento. In questo clima, chi è il “padre” che avrà cuore di gestire il programma-monstre illustrato alle Camere dal presidente del Consiglio, che spazia nella stratosfera tra clausole Iva e riforme costituzionali, asili nido e concessioni autostradali, Green New Deal e Smart Nation? E chi è la “madre” che avrà cura di attuare il solido piano economico illustrato dal ministro Gualtieri in un’altra intervista a Repubblica, che finalmente restituisce l’Italia all’Europa, rilancia la riduzione del debito, conferma Quota 100 e Reddito di cittadinanza ma solo fino alla scadenza triennale? Questo è il rischio più grave, per la Cosa giallo-rossa. La persistenza di un “trattino” irriducibile, che finisce per logorare le due già deboli forze nel gioco a somma zero dei due sub-governi. Cos’altro è quello di Franceschini, che sul Colle riunisce i “suoi” ministri per un selfie auto-celebrativo? Cos’altro è quello di Di Maio, che alla Farnesina convoca i “suoi” ministri per stilare “un documento da consegnare all’Eurogruppo”? Anche l’epilogo della contesa sui sottosegretari riflette questo amalgama malriuscito. Leo Longanesi diceva: «Perché assumere una responsabilità, quando puoi assumere un sottosegretario?». In attesa di assumersi la responsabilità di tirar fuori l’Italia dalla crisi, il governo di sottosegretari ne ha assunti 42. Nulla di scandaloso: tutti i governi della Repubblica si sono spartiti gli incarichi di sottogoverno. Ma questa “Grande Abbuffata” ha due aggravanti. La prima aggravante: l’applicazione del manuale Cencelli agli strapuntini di Palazzo ha reso necessario un suk più laborioso del solito, per accontentare le correnti interne dei due schieramenti. Vale per M5S, che per pulire la coscienza parla di “anime”: grillini e casaleggiani, dimaiani e fichiani. Vale per il Pd, che per sporcarsele si lacera in “fazioni”: zingarettiani e renziani, martiniani e franceschiniani. Il risultato finale è quasi grottesco. Nel Movimento Di Maio esulta via Facebook soltanto per la sua «nuova squadra, che sarà composta da 21 esponenti del M5S, di questi 6 saranno viceministri”. Nel Pd deflagra l’immancabile diaspora, stavolta dei dem toscani, che esclusi dalla mangiatoia accusano il Soviet-Nazareno di “purga anti-renziana», aprendo la strada all’ennesima “rupture” del senatore di Rignano. La seconda aggravante: certe pratiche lottizzatorie date in pasto a un’opinione pubblica cresciuta a “pane e casta”, per quanto rituali, questo governo non se le può permettere. Il Conte Due è già nato con una tara genetica (benché non giuridica): gli italiani non l’hanno votato e gli ex nemici l’hanno voluto solo per evitare le elezioni anticipate e il sicuro trionfo del dittatore dello Stato libero di Papeete. Per questo si presta, quasi di per sé, alla becera campagna salviniana contro “il governo dei poltronari”. Dunque litigare sulle poltrone, invece che cominciare a dare risposte concrete ai bisogni dei cittadini, è un balsamo sulle ferite del Capitano rancoroso. Far finta di non vedere che il Nord del Paese è all’opposizione (e sottovalutare colpevolmente il tema non solo nella scelta dei ministri ma anche in quella dei sottosegretari) è un argomento in più per la propaganda sfascio-populista. La ruspa Sovranista si è piantata a un passo da Palazzo Chigi, col serbatoio momentaneamente vuoto. Proverà a ripartire, solitaria e rabbiosa, dai pratoni di Pontida. Conte, Di Maio e Zingaretti evitino di regalargli un pieno di benzina.

«WHATEVER it takes»: con queste tre parole, pronunciate a Londra il 26 luglio 2012, Mario Draghi ha salvato l’euro e anche l’Europa. La speculazione, a causa delle difficoltà di Grecia e Italia, era pronta ad azzannare l’euro. Poi, ha spiegato meglio: «Nei limiti del nostro mandato, la Bce è pronta a fare qualsiasi cosa per salvare l’euro. E credetemi, sarà abbastanza». I mercati, e gli speculatori, capirono subito che Draghi era un banchiere speciale e che non si sarebbe arreso tanto facilmente ai loro giochi. Anche per lui da quel momento valeva il detto in voga in America: mai andare contro la Federal Reserve. E infatti sono passati sette anni e l’euro è ancora al suo posto. La speculazione è stata sconfitta con una ricetta molto semplice: una politica monetaria espansiva. Allora, al debutto di Draghi come banchiere centrale europeo, a preoccupare erano le turbolenze finanziarie. Oggi la musica è cambiata. Oggi è la congiuntura a creare problemi, visto che anche la diligente e disciplinata Germania si trova alle soglie della recessione. Qualche giorno fa Draghi ha detto che gli Stati che se lo possono permettere devono utilizzare il loro bilancio per contrastare la recessione: cioè spendere di più. Ma non tutti possono farlo. E quindi ecco che Draghi, a pochi mesi dalla sua uscita definitiva dalla Bce riscopre il «whatever it takes», lancia cioè una politica espansiva della banca centrale, più soldi e a un prezzo inferiore, sperando che questo basti ad allontanare il fantasma della recessione. Non si sa se basterà, le recessioni sono sempre bestie complicate e testarde. Ma Draghi, fino alla fine, ci prova. L’aspetto più divertente è che il presidente americano, Trump, sta utilizzando la mossa di Draghi per premere sulla sua banca centrale, con il cui governatore (da lui stesso nominato non molto tempo fa) è in lite da tempo. Insomma, l’Europa, cioè Draghi, come esempio. Un’avvertenza. La Bce fa bene a fare quello che sta facendo, ma in questo modo si guadagna solo un po’ di tempo. Se l’Europa vuole combattere seriamente la recessione, deve svecchiarsi e diventare più agile, meno burocratica.

P er Ursula von der Leyen, la nuova Commissione Europea dovrà essere una Commissione “geopolitica”. Vedremo in che modo il nuovo Alto Rappresentante per gli Affari esteri, lo spagnolo Josef Borrell, interpreterà questo mandato. Non sarà semplice fare scelte coerenti. Da una parte, la rivalità fra grandi potenze si sta largamente scaricando sull’Europa. Dall’altra, i cittadini europei rivendicano un’Europa più forte sul piano globale ma non pare che abbiano un’idea così chiara della posta in gioco. Guardiamo ad esempio al risultato di un sondaggio appena pubblicato dallo «European Council on Foreign Relations», da cui emerge – in generale – l’aspettativa che l’Ue diventi un attore internazionale autonomo e influente. Alla domanda su “da che parte si dovrebbe collocare il vostro paese in un conflitto fra gli Stati Uniti e la Russia?”, una vasta maggioranza degli intervistati, con l’eccezione vistosa dei polacchi, sceglie la neutralità: da nessuna delle due parti rispondono il 65% degli italiani, il 70% dei tedeschi, il 63% dei francesi, l’85% degli austriaci. Chi sceglie una parte sceglie prevalentemente gli Stati Uniti, ma si tratta comunque di minoranze. L’Europa più forte e più indipendente sul piano internazionale assomiglia, per vocazione istintiva dei suoi cittadini, a una Grande Svizzera. In un numero di Aspenia di qualche mese fa, l’ambasciatore Sergio Romano argomentava che una posizione del genere – l’Europa come Grande Svizzera – sarebbe in effetti la scelta geopolitica migliore per l’Ue. Non ne sono convinta: il punto è che questo eventuale conflitto Usa-Russia non si svolgerebbe altrove ma coinvolgerebbe inevitabilmente l’Europa. La neutralità, nel Vecchio Continente, è una tentazione ricorrente; la storia tuttavia ne ha dimostrato la precarietà. L’Europa può davvero mettere sullo stesso piano gli Stati Uniti e la Russia? Siamo ormai abituati ad attribuire al presidente americano il ruolo di “guastatore” del vecchio ordine liberale internazionale (abbiamo definito così, convenzionalmente, regole e istituzioni create dopo la Seconda guerra mondiale), inclusa la crisi di identità della Nato. Ed è vero che la presidenza Trump ha generato seri dubbi in Europa (dubbi riflessi nel sondaggio che citavo prima) sulla garanzia di sicurezza offerta dagli Stati Uniti; ma l’opinione media europea è a questo punto ugualmente responsabile per l’incertezza esistente sulla credibilità dell’Alleanza atlantica. Il compito di Borrell non sarà quindi facile. E l’Alto Rappresentante spagnolo ne è consapevole: i governi nazionali porranno difficoltà ulteriori. In un incontro del maggio scorso allo «European Council on Foreign Relations», il successore di Federica Mogherini ha paragonato il Consiglio Affari esteri dell’Ue a una “valle di lacrime”: i vari ministri degli Esteri degli Stati membri lamentano crisi multiple in giro per il mondo ma restano incapaci di azioni collettive. Nel frattempo, i loro cittadini ritengono che l’Ue debba diventare un attore geopolitico indipendente; ma come si è appena visto, indipendente significa, per una maggioranza di loro, capace di non schierarsi di fronte a un conflitto fra Usa e Russia. Con percentuali non molto diverse, la neutralità, come opzione geopolitica preferenziale, prevale anche nelle risposte alla domanda su “da che parte dovrebbe schierarsi il vostro paese in un conflitto fra gli Stati Uniti e la Cina?”, dove contano motivazioni economico-commerciali e non solo di sicurezza. Se la sovranità strategica europea finirà per equivalere non solo alla più che legittima difesa degli interessi economici globali del Vecchio Continente ma anche a un atteggiamento neutrale di fronte ai potenziali conflitti fra le grandi potenze internazionali, le conseguenze geopolitiche saranno molto rilevanti: la fine dell’alleanza occidentale è solo una questione di tempo – mentre sfuma, nelle percezioni europee, la rilevanza della contrapposizione fra democrazie liberali e potenze autoritarie. Ma a quel punto l’Ue-Grande Svizzera dovrà essersi dotata di una capacità di difesa autonoma, anche in campo nucleare. Difficile prevedere che ciò avvenga in tempi rapidi, mentre Brexit disorienta una delle due principali potenze militari del Vecchio Continente e quando la difesa (punto centrale, peraltro, della lettera di incarico a Josef Borrell e oggetto di una nuova Direzione generale di politica industriale, affidata a Sylvie Goulard, commissaria francese al mercato interno) non è esattamente in cima alla lista delle priorità di investimento. La Commissione geopolitica di Ursula von der Leyen, nel tentativo di riportare l’Ue più vicina alle preferenze dei suoi cittadini, dovrà spiegare con molta chiarezza i costi e i rischi di un’Europa “potenza” soltanto in teoria ma priva degli strumenti per esserlo.

S timolare l’economia che tende pericolosamente a rallentare, spingere in su l’inflazione ancora troppo bassa: con questi due obiettivi, alla vigilia del suo addio alla Bce previsto per il primo novembre e malgrado le riserve emerse anche al vertice dell’Istituto, Mario Draghi ha annunciato la ripresa del piano straordinario di acquisti di titoli di Stato sospeso da dicembre e l’introduzione di un meccanismo meno penalizzante (ma poi non tanto) per chi lascia in banca fondi che potrebbero essere destinati ad investimenti. È un aiuto alla torpida economia europea che tende all’ingiù e anche, inutile nasconderlo, a quella traballante dell’Italia, gravata da un debito pubblico in continua ascesa e da una crescita bloccata e ormai tendente alla recessione. Naturale che decisioni del genere trovino resistenze tra i paesi del Nord Europa e nella Germania frenata dalle conseguenze della guerra dei dazi tra USA e Cina, che penalizza fortemente le esportazioni tedesche. Ma SuperMario, com’è ormai soprannominato, ha tirato diritto e non è difficile cogliere nella sua risolutezza un modo di aiutare il fronte dei governi europeisti e della nuova Commissione, impegnati a fronteggiare i partiti sovranisti e populisti, sconfitti nelle elezioni del 26 maggio, ma non ancora arresi. Anzi, decisi a sfruttare ogni occasione per tentare una rivincita. Come l’immigrazione, per la quale la nuova presidente Ursula von derLeyen sta cercando di allargare lo stretto passaggio della disponibilità dei cosiddetti volenterosi ad accogliere quote di profughi – una disponibilità, va detto, spesso manifestata a parole e non nei fatti -, anche il rischio di una gelata dell’economia europea, in un momento come questo, potrebbe trasformarsi in un pretesto a buon mercato per la propaganda del fronte anti-europeo. Basta solo seguire la campagna elettorale ininterrotta in Italia di Salvini, uscito politicamente con le ossa rotte dalla crisi di agosto che ha dato origine al Conte bis e alla nuova maggioranza giallo-rossa. Super Mario nega ovviamente, anche di fronte agli attacchi di Donald Trump, che le sue ultime mosse siano politiche. Ma sa benissimo che al di là delle critiche dei singoli membri dell’Unione, Germania in testa, l’Europa – e lo spread – ringraziano.

Ieri la Banca centrale europea ha ridotto i tassi sui depositi di dieci punti base, annunciando contestualmente che da novembre ricomincerà il suo programma di acquisto di attività finanziarie. Il presidente uscente Mario Draghi ha indicato la via a Christine Lagarde, che, del resto, vuole porsi in piena continuità col predecessore. A salutare la decisione con favore sono, inevitabilmente, i grandi debitori. Il tasso d’interesse è il prezzo del futuro: ci dice quanti euro di domani vale un euro di oggi. T assi a zero o negativi aiutano chi s’indebita e penalizzano chi presta denaro. Chi sono, un po’ ovunque, i maggiori debitori? Gli Stati, ovviamente. Solo in un contesto come questo è immaginabile che lo Stato italiano, nonostante un debito pubblico che supera il 130% del Pil, riesca a collocare titoli con interesse negativo. È per questo che le classi politiche festeggiano la scelta di Draghi. Ma, come ha scritto questo giornale, nel nuovo contesto la politica fiscale non potrà più solo fare assegnamento sul bazooka monetario. È una sfida sia per i Paesi del Nord che per quelli del Sud. È chiaro che per il governo Conte la mossa della Bce è preziosa. Significa che almeno parte delle nuove spese potranno essere finanziate a debito, continuando a procrastinare interventi di controllo della spesa, che sono sempre costosi sotto il profilo del consenso. Questo protrarsi delle politiche monetarie espansive si spiega in virtù dell’inflazione, ancora contenuta, che segnalerebbe una debolezza dell’economia dell’Eurozona. Ma i prezzi non stanno scendendo (come sottolineava Daniel Gros alcuni giorni fa): semplicemente salgono a passo più contenuto dell’obiettivo di inflazione del 2%. Ciò può essere dovuto a diversi fattori: la concorrenza internazionale, ad esempio, o l’innovazione tecnologica. Quando ragioniamo della debolezza dell’economia, tendiamo a pensare che tutta l’area dell’euro somigli all’Italia. Ma in buona parte dell’Eurozona i salari reali crescono del 2,5% l’anno e in un contesto di bassi tassi di disoccupazione. Nello stesso tempo, è abbastanza evidente che si stanno gonfiando i prezzi degli asset: dagli immobili alle attività finanziarie, basti pensare alla cavalcata infinita dei corsi di borsa. In alcune città europee ci sono già avvisaglie di forte disagio: i “locali” mal digeriscono le scorrerie immobiliari di ricchi e super-ricchi, che rendono gli acquisti impraticabili per tutti gli altri. Tassi permanentemente bassi o negativi influenzano l’assunzione dei rischi. Impieghi “tranquilli” non possono produrre rendimenti rilevanti e per questo si cercano strategie più rischiose. Gli effetti, insomma, non sono solo di sostegno dell’economia. Banche e assicurazioni non hanno vita facile. In Italia, il Movimento Cinque Stelle continua a parlare di separare banche d’affari e banche commerciali: con questi tassi, però, ciò significherebbe condannare queste ultime all’estinzione. L’effetto forse più preoccupante è sulla stessa idea di risparmio. Per rinunciare al proverbiale uovo oggi è necessario avere la ragionevole aspettativa che possa diventare una gallina domani: è improbabile lo si faccia, se invece ci si ritrova con tre quarti di uovo. Gli effetti sociali di un risparmio permanentemente non remunerato sono una grande incognita, con ripercussioni sulla stessa tenuta sociale delle nostre società. La scelta di Draghi e della Bce non è certo fatta a cuor leggero. Ma nel lungo periodo potrebbe avere conseguenze inaspettate. Dieci anni di politiche monetarie espansive ci hanno portato in acque inesplorate. Oggi sorridono i politici, qualcun altro potrebbe piangere domani.

I l vecchio Bush alla fine degli anni ’80 fece un discorso memorabile che lo portò alla presidenza americana. Disse: «Non aumenterò le tasse». E, per essere più efficace, aggiunse quella frase divenuta famosa: Read my lips. «Leggete le mie labbra: non aumenterò le tasse». Il Congresso, a maggioranza democratica, alla fine però le aumentò. Quella frase, efficacissima, gli costò il rinnovo alla presidenza. Il suo capitale politico andò in fumo. Non ci si poteva fidare di Bush. Più che promettere qualcosa che non poteva realizzare, che è tipico di molti politici, Bush promise di non fare ciò che poi fu costretto a fare. In questi giorni siamo sommersi dalle dichiarazioni del segretario del Pd Zingaretti, che prometteva ai suoi iscritti di non allearsi con Grillo. Più o meno la medesima posizione tenuta da Renzi. E dall’altra parte c’è solo l’imbarazzo della scelta tra le dichiarazioni grilline di non fare alcuna alleanza con il partito definito «di Bibbiano». Non solo oggi governano insieme, ma – come ormai si capisce bene – cercheranno di farlo anche nelle regioni rosse, in cui tra poco si vota. Anche loro, Pd e M5S, hanno dunque promesso di non fare ciò che poi hanno fatto. È molto diverso dal tic della Prima repubblica, democristiano verrebbe da dire, dove tutto era possibile perché poco veniva esplicitamente escluso. In questo caso i politici non hanno perso una verginità, che in pochi attribuiscono loro, ma una cosa ben più pesante: la loro credibilità. Andiamo al dunque. In molti temiamo che la nuova maggioranza giallorossa possa adottare una tassazione patrimoniale: nella versione light della Confindustria sui prelievi bancomat, nella versione temuta dalla Confedilizia sugli immobili, o nella versione tosta sul patrimonio dei cosiddetti più ricchi. Ci sono state numerose smentite da parte degli esponenti del Pd e dei grillini. Ma chi di noi è disposto davvero a crederci? Se una contingenza e il gigantesco errore tattico di Salvini li hanno portati sullo stesso banco con chi giuravano non si sarebbero mai frequentati da alleati, si può davvero essere così sciocchi da credere che al primo deficit di cassa, o supposta emergenza, non metteranno le mani nei nostri conti correnti? I tanti osservatori che non si scandalizzano della giravolta politica, figuratevi un po’ voi quanto si scandalizzerebbero della retromarcia fiscale. Non credete alle loro labbra.

Mario Draghi prepara la sua uscita di scena con un’offensiva anti-crisi che gli attira i fulmini di Donald Trump. L’euro s’indebolisce, avvicinandosi alla parità con il dollaro: un aiuto per le esportazioni tedesche e italiane, una sfida al made in Usa. La Casa Bianca tuona contro la sua Federal Reserve accusandola di non essere aggressiva quanto la Bce; potrebbe anche accelerare i tempi di una nuova guerra commerciale, con dazi sulle auto tedesche e i vini italiani. Il tweet presidenziale è minaccioso: “La Bce – lancia Trump – tenta con successo di svalutare l’euro verso un dollaro molto forte, e così danneggia le nostre esportazioni”. L’ultima mossa di Draghi trae ispirazione dal “manuale per le terapie d’urto” inventato negli Stati Uniti. Fu Ben Bernanke, allora alla guida della Fed, che fece fronte alla grande crisi schiacciando i tassi d’interesse a quota zero e poi lanciandosi in massicci acquisti di bond per fare affluire moneta a un’economia agonizzante. Oggi l’Eurozona è un’area depressa, in media la crescita del Pil è rallentata all’un per cento annuo, la Germania anziché fare da locomotiva trainante sta peggio della media ed è già in recessione. Draghi ricorre a mezzi estremi: i suoi tassi sono negativi dello 0,5%, una situazione innaturale e al tempo stesso logica. È un disincentivo a parcheggiare i capitali presso la Banca centrale, perché bisogna pagarla per prestarle soldi. È una multa se non investi in attività produttive, in un certo senso. Poi c’è il rilancio degli acquisti di bond, proprio quel che fece la Fed inventando il quantitative easing. Questi acquisti nell’Eurozona erano terminati a dicembre, ora riprendono al ritmo di 20 miliardi di euro al mese. Draghi ci aggiunge la direttiva per cui questo pompaggio di liquidità «andrà avanti finché è necessario». In un certo senso vincola Christine Lagarde che gli succederà dal primo novembre. Le banche tedesche e i falchi del rigorismo monetario brontolano. Ma più di tutti protesta Trump: un euro debole è un altro “vento contrario” che soffia sull’economia americana ostacolando la sua rielezione. Lui se la prende con tutti, a cominciare da chi gli sta più vicino: «La Fed sta seduta a far niente – protesta Trump nell’ennesimo attacco al banchiere centrale che ha nominato lui –; gli altri si fanno pagare per prendere denaro a prestito mentre noi ancora versiamo interessi». Anche se la settimana prossima la Fed annuncerà un nuovo calo dei tassi (un quarto di punto), la constatazione di Trump non fa una piega. In questo momento gli Stati Uniti offrono rendimenti positivi, l’Eurozona no. Anche se ufficialmente Draghi non si occupa di pilotare il tasso di cambio, quella divaricazione dei rendimenti tra le due sponde dell’Atlantico contribuisce ad alimentare flussi di capitali verso l’America. Questo rafforza il dollaro, già irrobustito perché l’economia Usa continua a crescere a una velocità doppia rispetto a quella europea. È normale che fra due economie concorrenti e di pari dimensioni – Stati Uniti, Eurozona – quella più dinamica attiri capitali e subisca un rafforzamento della sua moneta, mentre la più debole vede calare la sua valuta. Un deprezzamento dell’euro in teoria aiuta il Vecchio Continente ad agganciarsi alla locomotiva americana, almeno finché questa conserva un certo vigore (la domanda di consumi è nettamente più vivace negli Stati Uniti). È possibile però che Trump voglia mettere una zeppa dentro questo meccanismo. Accusa velatamente Draghi di manipolare il cambio e di manovrare una svalutazione competitiva. Sembra quasi predisporre il terreno per appioppare sui prodotti europei nuovi dazi. Nella prossima lista ci sono le auto tedesche (con dentro tanta componentistica made in Italy) e il nostro Prosecco. Qui la svalutazione dell’euro, “incoraggiata senza dirlo” dalla Bce, incontra un limite. Svalutare rende meno di una volta, se siamo entrati durevolmente in una fase di protezionismi. L’altro limite dell’audace manovra monetaria europea non c’entra con Trump. Lo ha indicato lo stesso Draghi. L’efficacia della Banca centrale si è ridotta. Può anche schiacciare il costo del denaro sotto zero, ma “il cavallo non beve”. L’espressione coniata da Guido Carli negli anni Sessanta indica una situazione in cui gli investitori privati non hanno fiducia e quindi parcheggiano la liquidità anche se non gli rende nulla. La domanda dei consumatori è fiacca, le imprese sono pessimiste sul futuro. Draghi ha detto chiaramente che in situazioni così depresse deve farsi avanti la spesa pubblica, cominciando dai Paesi che hanno bilanci floridi come la Germania. Su questo Lagarde è già d’accordo con lui. Un rilancio di crescita trainato da investimenti tedeschi avrebbe un altro vantaggio: l’Eurozona si darebbe finalmente un motore propulsivo interno, non avrebbe più bisogno di agganciarsi alla domanda americana o cinese, diventerebbe un po’ meno vulnerabile ai protezionismi incrociati delle due superpotenze.

N on c’è stata sin qui alcuna discontinuità nelle promesse. Ancor prima di aver ricevuto la fiducia dalla Camera, alcuni ministri si sono sbilanciati nel senso letterale del termine. Il ministro dell’Istruzione si è impegnato, mettendo sul piatto le sue dimissioni, ad aumentare la spesa per scuola e università di 3 miliardi. Il ministro della Salute ha preannunciato 3,5 miliardi in più per, inter alia, abolire il superticket da 10 euro su visite e accertamenti. Non si è fatto mancare nulla neanche il presidente del Consiglio che nel suo discorso per la fiducia alla Camera si è impegnato a neutralizzare l’aumento dell’Iva (23 miliardi) e a ridurre in modo significativo le tasse sul lavoro (minimo 5 miliardi, ma perché sia visibile bisognerà andare ben oltre). Conte, nella sua “sintesi programmatica”, ha anche annunciato «specifiche risposte ai bisogni dei cittadini» (dal piano straordinario di investimenti nel Mezzogiorno affidato a una nuova Banca del Sud agli aumenti salariali per gli insegnanti e ai concorsi per la stabilizzazione dei precari, dagli asili nido gratis al piano straordinario di assunzione di medici e infermieri, dal piano strategico di prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali al giusto compenso per i lavoratori autonomi che non può che comprendere quelli che operano per la PA) evitando accuratamente di fornire dettagli su costi e relative coperture. Simile l’approccio dei 26 punti delle “linee di indirizzo programmatico” per il nuovo governo che includono anche il “sostegno alle famiglie e ai disabili” e “maggiori risorse per il welfare”, oltre che aumenti salariali per il personale di difesa, forze dell’ordine e vigili del fuoco e gli interventi «per rendere Roma una capitale sempre più attraente e vivibile». Sembra esser stato trovato un accordo nella maggioranza sull’interruzione di “quota 100” dopo i tre anni di sperimentazione, ma è bene ricordare che questi non sono risparmi rispetto alla legislazione vigente che prevede già che la misura non duri più di 3 anni. È solo un impegno a non aumentare ulteriormente la spesa. Per avere veri risparmi occorrerebbe applicare le stesse riduzioni che si applicano alla parte contributiva delle pensioni anche alla parte retributiva, salvaguardando la possibilità di andare in pensione prima. Sarebbe anche un modo di ridurre le iniquità tra generazioni introdotte da quota 100. In un periodo in cui l’elettorato è estremamente volatile ed è molto diffidente nei confronti di chi occupa posizioni di governo le promesse non mantenute possono essere letali. Non si può sperare che vengano dimenticate quando le si fanno a poche settimane dalla presentazione di una legge di bilancio che, per quanto possa ottenere margini di flessibilità in Europa, dovrà comunque fare i conti con la realtà. Gli impegni a vuoto sono pericolosi soprattutto se all’opposizione vi è chi ha fatto promesse ancora più impegnative, ma senza mai scontrarsi coi vincoli di bilancio perché ha sempre preso le distanze da chi tiene i cordoni della borsa. Salvini potrà ora contestare la manovra con tutta la demagogia che ci si può permettere dai banchi dell’opposizione. Impossibile inseguirlo su questo piano inclinato. Bene adottare una diversa narrativa sobria negli impegni di spesa prima ancora che nel vocabolario. Se lo si fa per tempo può essere molto efficace. Per chi ambisce a rendere questa esperienza di governo un trampolino di lancio per una brillante carriera politica può essere molto più utile mostrare sul campo di avere una gestione oculata delle risorse pubbliche. Essendo soldi prelevati dai cittadini non sono mai “pochi” e ciascun ministro, anche quelli senza portafoglio, è responsabile di una macchina amministrativa che costa milioni, se non miliardi, di euro e deve garantire la supervisione su altre amministrazioni pubbliche, spesso ancora più costose. Perché allora non utilizzare vecchi e nuovi strumenti di comunicazione per rendicontare in modo meno oscuro che nel conto annuale le spese di gestione della macchina che è stata affidata a ciascun ministro? Perché non utilizzare i giudizi dei cittadini sulla qualità dei servizi offerti dalla PA per valutare i dirigenti e le singole amministrazioni? Non occorrono nuove leggi per farlo, solo negoziati coi potenti sindacati del pubblico impiego. Servirà tutto questo anche per mettere in luce un fatto che spesso sfugge all’opinione pubblica e che i populisti, che contrappongono il popolo a un’élite descritta come monolitica e corrotta, non hanno certo contribuito a chiarire: spesso non comandano i ministri, ma le burocrazie. Questo avviene tanto più quanto maggiormente inesperti sono i politici messi a capo dei dicasteri. Dimostrarsi in grado di gestire la macchina, di renderla più efficiente, di governare le burocrazie anziché farsi governare da queste può essere qualcosa di molto apprezzato dai cittadini, è un’oggettiva presa di distanze dalla odiata tecnocrazia ed è una forte discontinuità rispetto al governo precedente che spesso ha interpretato il ruolo di ministro come quello di un comiziante. Non ci si illuda che far parte di un governo con una forte componente anti-establishment metta al riparo dall’ostilità oggi presente nei confronti delle classi dirigenti. Al contrario, la condivisione del potere con i populisti può essere molto pericolosa. Ricordano i cittadini dei Paesi dell’ex blocco sovietico. L’ideologia del regime li aveva talmente convinti che i capitalisti erano cattivi e spietati che oggi sono disposti a tollerare gli oligarchi russi e tutte le peggiori manifestazioni di un capitalismo senza scrupoli. I populisti hanno descritto in modo talmente caricaturale “il palazzo” che adesso che ne fanno parte spesso interpretano perfettamente il ruolo che avevano costruito nella loro mente. Lo spettacolo desolante cui stiamo assistendo con la nomina dei sottosegretari ne è la riprova. L’autoconvincimento talvolta gioca brutti scherzi.