Si tratta, oggi, di sapere se ci piace o no il vestito blu indossato al giuramento da Teresa Bellanova e se una bracciante agricola con la terza media, poi sindacalista per trent’anni, abbia titoli per fare il ministro. Votate. Mettete like. Dite la vostra, e che sia una battuta sagace. Insultate, se non sapete fare di meglio, così qualcuno si indignerà dei vostri insulti e avremo la cronaca di domani: le voci in difesa della vittima. Un talk show, di certo, con favorevoli e contrari ai farpali blu che si urlano addosso, magari se abbiamo fortuna uno dei due abbandona lo studio e si impenna l’audience, il frammento video finisce in home page e fa milioni di clic. Bingo. Sale il prezzo della pubblicità del sito, così. Qualcuno, state sicuri, ci guadagna. Si potrebbe persino pensare: qualcuno lo fa apposta. La “polemica del giorno” (che come segnala la definizione dura un giorno: è diversa da quella del giorno prima ed è destinata ad essere sostituita da un’altra il giorno dopo) è la più grande arma di distrazione di massa concepita da chi manovra la presunta democrazia del web per dare a moltitudini di persone l’impressione di occuparsi dell’attualità (politica, sociale) e distoglierle invece da quel che di rilevante sta veramente accadendo, fuori dal cono di luce dell’hastag trending topic. Sugli algoritmi che governano il web e chi li usa a suo beneficio sono stati scritti trattati di cui non è il caso di parlare qui. Diamoli per noti, e se non sono noti: niente succede per caso, dicono. Se voleste saperne di più leggete “I nuovi poteri forti” di Franklin Foer, per esempio. Della polemica del giorno tocca comunque occuparsi, non c’è rimedio: l’antidoto non è stato ancora scoperto. Si può però usare lo spazio per fare delle domande, anziché dare assertive prevedibili risposte destinate a confermare gli opposti eserciti — pro farpali blu o contro, in questo caso — nelle sue posizioni. È quello che vorrei fare qui, un paio di domande. La prima è questa. Ci deve essere o no una corrispondenza fra quello che uno ha imparato a fare nella vita e il compito che è destinato a svolgere da ministro? Chiedo per sapere, senza polemica. Ci eravamo appena acconciati al diktat dell’incompetenza democratica e sovrana, candidati ai consigli di amministrazione estratti a sorte, commesse di biancheria intima incaricate di governare processi di sviluppo economico globale. Avevamo appena metabolizzato l’informazione che è opportuno nascondere eventuali master, manomettere i curricula, negare di aver speso anni a studiare e caso mai vantare una giovinezza da buttafuori, da karaoker o piastrellista per evitare l’infamante accusa di essere élite — il peggio del peggio: competenti, dunque casta sospetta — e ambire a rappresentare il popolo nell’unica forma di eguaglianza lecita. Quella al ribasso. Dunque, vediamo: non serve sapere di sanità per essere ministro della Salute (cioè non basta essere passati qualche volta al pronto soccorso) o sapere di strategie militari per essere ministro della Difesa, giusto? O vale sempre, questo principio, o non vale mai. Quindi mi concentrerei più sulle ragioni per cui a volte vale e a volte no, anche nella stessa compagine di governo — destra o sinistra che sia. Se vale, e sarebbe bello sapere che di nuovo vale, per Teresa Bellanova il discorso si chiude qui: è una dei non moltissimi, in questo governo come nei precedenti immediati, a vantare rispetto al suo compito una competenza specifica. Ha iniziato a fare la bracciante a 14 anni, il resto della sua storia lo trovate ovunque. La laurea non ce l’aveva nemmeno Giuseppe di Vittorio, pugliese come lei, eppure. Sul vestito e sulla silhouette non c’è da spendere nemmeno una parola: sono giù state dette tutte ed è mortificante, davvero, ripetere che se uno — uomo o donna che sia — è basso, magro, grasso, vestito di nero o di fucsia questo non insiste in nessun modo sulle sue capacita. Sulle donne si infierisce, sugli uomini assai meno: si sa, non è la notizia del giorno. C’è un lavoro grande da fare e speriamo che questo governo lo cominci, anzi lo ricominci, lo riprenda da dove si è interrotto. La ministra è spiritosa, oltre che combattiva. Ieri si è vestita a pois, ha fatto un hastag che dice “vestocomevoglio”. Il giorno prima aveva scritto “la vera eleganza è rispettare il proprio stato d’animo”. Sono i fondamentali. La seconda domanda è se, a parte i farpali e i pois, ci sia qualcuno a cui interessa la politica. Cioè i programmi, i propositi di chi è chiamato a rappresentarci tutti. In questo senso lo strano caso di Teresa Bellanova è davvero interessante. Perché nasce dalemiana, ‘scoperta’ da D’Alema come tanti a sinistra in Puglia, diventa bersaniana contro Renzi, infine renziana di ferro — in polemica persino con Martina, per un momento suo compagno di corrente e per un breve istante persino segretario del partito. Paladina del Jobs act, accusata di “tradimento” dalla sinistra del Pd. Alla ultime elezioni, in Puglia, Bellanova ha preso cinque volte i voti di D’Alema ma è stata tuttavia sconfitta da Barbara Lezzi del movimento Cinque stelle, diventata ministro per il Sud con il diploma di istituto tecnico — per stare ai titoli — e una carriera di impiegata di terzo livello nel settore commerciale, a Lecce. Terzo livello, leggo dove si spiega: commessa, vetrinista, assistente cassiera. Dunque fino all’altro ieri, in Puglia, D’Alema è stato superato da cinque giri di pista da Bellanova, che è tuttavia stata sconfitta da Lezzi: non esattamente un’esperta di politiche del Mezzogiorno. Oggi Pd e Cinquestelle governano insieme e tutto è perdonato. Ma nel ginepraio di correnti ostili del Pd, che in un futuro prossimo potrebbero decidere le sorti della longevità di questo governo, la pugnace, spiritosa e competente Bellanova come si regolerà se si dovesse votare per esempio una fiducia, o una riforma delle pensioni, o eleggere un presidente della Repubblica? In autonomia, come è pure probabile, o in ossequio a chi l’ha indicata tra i litigiosi leader della stessa metà campo? È una domanda. Più rilevante per il nostro futuro — mi sembra — del suo vestito di domani. Che sia giallo, a righe o a scacchi, e sentiamo il parere del fashion leader del momento, e mettiamo — vi prego, non mancate — mi piace. Del resto non occupatevi, ché è cosa da esperti. Il resto è potere.
Era la primavera del 1980, o forse del 1979, e la temperatura, sui campi della provincia di Brindisi, era già altissima. Si discuteva del rinnovo del contratto dei braccianti e per la prima volta, dopo anni di silenzio, contadini e contadine rivendicavano paghe umane e diritti. «Eravamo trattati come bestie e quel poco che prendevamo dovevamo darlo per metà al caporale: e non c’era grande alternativa, se si voleva lavorare era così. Poi però decidemmo di essere stanchi» racconta quarant’anni dopo Lucia, che passava le sue giornate a testa in giù, a raccogliere pomodori, in quei campi. Quell’estate i braccianti salentini decisero di alzarla, la testa. Perché qualcuno cominciò a convincerli che si poteva fare: una bracciante di Ceglie Messapica, una sindacalista della Cgil, Teresa Bellanova. Era un pomeriggio caldo, a Villa Castelli, feudo dei caporali del brindisino, si stava organizzando la protesta all’interno della Camera del Lavoro, quando due macchine arrivarono sgommando. Erano loro, i caporali. Intimarono ai lavoratori di uscire perché volevano “parlare” con quella sindacalista che si era messa in testa di fare la rivoluzione. Non ci riuscirono. I braccianti la protessero negli uffici del sindacato, le fecero da cordone, i caporali urlarono, minacciarono, ci fu un parapiglia tanto che la polizia dovette intervenire per metterli in fuga. Dall’auto, mentre scappavano, caddero due pistole. Le armi che dovevano servire per spaventare “Teresa”, il nuovo ministro dell’Agricoltura. «Non mi hanno spaventato le pistole, figuriamoci qualche deficiente dietro un computer» sorrideva ieri, ricordando questa storia, con i suoi collaboratori. Ed è proprio quel pomeriggio di Villa Castelli (da qualche parte ci dovrebbe essere anche un reportage di Joe Marrazzo che raccontava la resistenza di quelle braccianti) che dice tutto di Teresa Bellanova: determinata, senza paura. E profondamente scomoda. «Non si spaventa, Teresa non si spaventa» sorride Concetta Basile, oggi dirigente della Cgil e amica di una vita della Bellanova. «Io la conosco bene: negli anni ’80 – racconta – eravamo entrambe nella Federbraccianti, abbiamo lavorato accanto per anni. Io arrivavo da Scicli, provincia di Ragusa. Il mio lavoro era smontare le serre. Lei da Brindisi, e combatteva a mani nudi i caporali: con quelli non ti puoi permettere né di sbagliare né di essere debole. Teresa non lo era. Per questo era molto amata dagli uomini e donne che si spaccavano la schiena in agricoltura e nei cambi di tabacco». La Basile non nasconde momenti di tensione. «Non sono stata d’accordo con la sua scelta di stare con Massimo d’Alema. Ho contestato la sua decisione di affiancare Matteo Renzi. Ma Teresa è così: un treno, un generosissimo treno». Sul suo abbraccio con Renzi la Bellanova racconta spesso un altro aneddoto: «Era l’agosto del 2015, Matteo Renzi aveva letto su Repubblica una storia. Mi chiamò per dirmi: Teresa, non deve accadere più. Ho bisogno di te». La storia era quella di una bracciante agricola morta di infarto mentre raccoglieva l’uva in Puglia per due euro l’ora. Si chiamava Paola Clemente, aveva 53 anni e viveva a Crispiano, 40 chilometri da Ceglie Messapica e Villa Castelli, dove tutto, 40 anni, per il ministro Teresa Bellanova era cominciato.
L’altro ieri la neo ministra Teresa Bellanova ha preferito non replicare. Il giorno dopo si è decisa a farlo solo dopo che erano trascorse parecchie ore (passate in riunioni infinite al dicastero dell’Agricoltura). E ha scelto l’ironia. Del resto, è quella l’unica arma con cui è possibile fronteggiare il popolo degli odiatori di professione che impazza sul web. La poco edificante storia si è svolta in questi ultimi due giorni. Infatti, è da quando hanno visto l’immagine della ministra al giuramento che sui social gli haters hanno attaccato senza sosta la titolare del dicastero delle Politiche agricole per il suo fisico e per il vestito blu elettricoabalze che indossava al Quirinale. Un drappello dei frequentatori più astiosi della Rete se l’è poi presa con lei anche perché ha solo il diploma di terza media. «Sono dei poveracci che seminano odio», si è sfogata Bellanova con i numerosi colleghi del Pd che l’hanno chiamata. Ma poi la ministra (che ieri ha ricevuto anche una telefonata di solidarietà di Giuseppe Conte) non ha voluto dare ai «poveracci» la soddisfazione di rispondere piccata, amareggiata o arrabbiata. E su Twitter ha cinguettato queste parole: «La vera eleganza è rispettare il proprio stato d’animo. Io ieri mi sentivo entusiasta, blu elettrica e a balze, e così mi sono presentata. Sincera come una donna». Più tardi Bellanova ha voluto nuovamente infilzare i suoi odiatori con un’altra buona dose di ironia. Ha postato sui social una foto che la ritraeva con un camicione giallo a pois neri: «Visto che il blu di ieri ha elettrizzato molti, ho voluto provare con questa mise oggi, che dite?». Hashtag: #vestocomevoglio. Un uno due per mettereatacere chi ancora vomitava insulti sul web. Non è il primo e non sarà l’ultimo caso di una donna che viene «massacrata» sul web. Sulla rete cambiano gli oggetti dell’odio a seconda dei periodi: gli immigrati, gli omosessuali. Solo l’alto numero delle donne insultate rimane suppergiù sempre lo stesso. Ma al coro degli anonimi rancorosi si era aggiunto anche l’ex parlamentare di Forza Italia Daniele Capezzone: «Carnevale? Halloween?», è stato il suo commento al vestito della ministra. Il Pd, come ha detto Nicola Zingaretti (che ha fatto anche una telefonata di solidarietà a Bellanova) sièschierato «senza se e senza ma» con la ministra. Matteo Renzi, che ieri ha pranzato con la titolare del dicastero delle Politiche agricole, l’ha difesa: «È triste la vita di chi passa il tempo a odiare gli altri sui social. Per voi sarebbe più utile imparare ad amare nella vita reale. E ad La foto Teresa Bellanova, 61 anni, ha risposto sui social con ironia: «Visto che il blu di ieri ha elettrizzato molti…» di Maria Teresa Meli Il presidente Fico e la crisi: fondamentale la centralità del Parlamento P iù tutele per gli oceani e per i mari. È soddisfatto il presidente della Camera M5S Roberto Fico dopo che il G7 dei presidenti di Parlamento in corso a Brest (Francia) ha approvato all’unanimità il suo emendamento che riconosce gli oceani come «bene comune». «Sono soddisfatto perché da questo principio possono passare maggiori vincoli giuridici e tutele più stringenti per gli oceani e i mari — ha spiegato Fico —. È uno degli obiettivi esplicitamente dichiarati nelle linee programmatiche del nuovo esecutivo che si è appena insediato e che prelude al proseguimento dell’iter alla Camera della proposta di legge cosiddetta Salva mare, che da un lato individua nuove modalità per il recupero dei rifiuti in mare, dall’altra promuove l’economia circolare. La blue economy in Italia è il 3 per cento del Pil e registra 800 mila occupati, le imprese del settore sono cresciute dell’8% negli ultimi cinque anni». Commentando invece la crisi di governo Fico ha detto che «la centralità del Parlamento è stata fondamentale — ha aggiunto Fico —. Quando i Parlamenti lavorano bene significa che la democrazia è forte e attiva». Er. Del. © RIPRODUZIONE RISERVATA di Massimo Franco ●La Nota LE DIVISIONI PREANNUNCIANO UNA CONVIVENZA NON FACILE N on si può dire che i primi vagiti siano rassicuranti, per la maggioranza di Giuseppe Conte. Non è ancora arrivata la fiducia delle Camere al governo tra M5S e Pd, e già spuntano le polemiche. Lo scontro tra la neoministra alle Infrastrutture, la dem Paola De Micheli, e i vertici dei Cinque Stelle irritati per i suoi «sì» alle opere pubbliche, a partire dalla Tav, suona come un brutto viatico. E altrettanto discutibile, sul piano politico e istituzionale, è la riunione di tutti i ministri grillini convocata ieri dal ministro degli esteri, Luigi Di Maio, alla Farnesina. È la conferma quasi in tempo reale di quanto sarà difficile lavorare a quell’«amalgama» che il premier teorizza tra Pd e Movimento. L’istinto antisistema dei seguaci di Beppe Grillo è pronto a riemergere al di là di ogni preoccupazione di coalizione. E rappresenta un limite culturale, prima che politico, destinato a pesare sull’esecutivo. Anche il tentativo di agganciare a livello europeo i Verdi in ascesa sembra rispondere soprattutto all’esigenza di contare a livello continentale. Il M5S ha inseguito prima, nel 2017, alleanze coi liberali filo-Ue, dai quali è stato respinto. Poi, nel 2018, ha vagato tra la protesta violenta dei gilet gialli francesi e i gruppi populisti di mezza Europa. Ma di fronte a quella nebulosa eterogenea, e per mancanza di posizioni chiare, non ha trovato vere sponde. Adesso cerca una sponda nei Verdi, alternativi e insieme complementari alle forze tradizionali di sinistra: un misto di cultura ecologista e progressista, ostilità alle opere pubbliche, attenzione ai problemi degli immigrati, che li rendono possibili alleati a Bruxelles. Anche se tradurre in Italia quei temi nella versione grillina rischia di diventare un alibi per chi, nel Movimento, non digerisce l’alleanza col Pd e teme di essere normalizzato. Ma il risultato sarebbe di radicalizzare e ritardare decisioni che hanno già provocato spaccature nella maggioranza con la Lega; e che promettono di riprodursi col Pd. Lo scontro di ieri con la ministra dem De Micheli è un assaggio di quanto potrebbe accadere nelle prossime settimane e in vista della manovra finanziaria. Se si somma alla riunione coi ministri grillini convocata ieri da Di Maio, Conte non può stare tranquillo. Il «capo politico» del M5S, sebbene contestato o forse per questo, vuole rivendicare il proprio ruolo. E usa in modo irrituale il nuovo ministero come succursale di Palazzo Chigi, dove non può andare perché non è più vicepremier. Dunque, spedisce un messaggio non tanto al Pd ma al presidente del Consiglio: Di Maio non rinuncerà a marcare l’identità e la separatezza della componente grillina rispetto allo stesso Conte. Si tratta di una conferma che i pericoli al governo verranno da un elettorato freddo e sconcertato dalla soluzione della crisi, e dal capo di un Movimento a caccia di rivalse. © RIPRODUZIONE RISERVATA I messaggi Rispunta la polemica sulla Tav mentre Di Maio riunisce i ministri grillini per mandare un messaggio al presidente del Consiglio amarvi». Tutte le forze politiche, di maggioranza e di opposizione, hanno solidarizzato con Bellanova. La delegazione dei 5 Stelle al governo ha definito gli attacchi sui social «atti ignobili». Dura anche la vicepresidente della Camera Mara Carfagna: «Si vergogni chi la insulta». Mariastella Gelmini, FI, è stata netta: «Basta odio sui social. nelle prossime settimane mi farò promotrice di una proposta di legge ad hoc». E il vicesegretario del Pd Andrea Orlando ha difeso la ministra su un altro versante, quello del titolo di studio: «Si è laureata all’università della lotta sociale». Ma c’è anche chi, pur schierandosi con la ministra, ha criticato il «doppiopesismo» in politica. È il caso di Giorgia Meloni: «Le donne di destra non hanno la stessa solidarietà da parte di quelle di sinistra. Vale la logica dell’uccidere un fascista non è un reato». A stemperare le polemiche ecco intervenire sui social Enzo Miccio designer, star della tv: «Un abito perfetto per la sua silhouette». Approvato.
Non si può dire che i primi vagiti siano rassicuranti, per la maggioranza di Giuseppe Conte. Non è ancora arrivata la fiducia delle Camere al governo tra M5S e Pd, e già spuntano le polemiche. Lo scontro tra la neoministra alle Infrastrutture, la dem Paola De Micheli, e i vertici dei Cinque Stelle irritati per i suoi «sì» alle opere pubbliche, a partire dalla Tav, suona come un brutto viatico. E altrettanto discutibile, sul piano politico e istituzionale, è la riunione di tutti i ministri grillini convocata ieri dal ministro degli esteri, Luigi Di Maio, alla Farnesina. È la conferma quasi in tempo reale di quanto sarà difficile lavorare a quell’«amalgama» che il premier teorizza tra Pd e Movimento. L’istinto antisistema dei seguaci di Beppe Grillo è pronto a riemergere al di là di ogni preoccupazione di coalizione. E rappresenta un limite culturale, prima che politico, destinato a pesare sull’esecutivo. Anche il tentativo di agganciare a livello europeo i Verdi in ascesa sembra rispondere soprattutto all’esigenza di contare a livello continentale. Il M5S ha inseguito prima, nel 2017, alleanze coi liberali filo-Ue, dai quali è stato respinto. Poi, nel 2018, ha vagato tra la protesta violenta dei gilet gialli francesi e i gruppi populisti di mezza Europa. Ma di fronte a quella nebulosa eterogenea, e per mancanza di posizioni chiare, non ha trovato vere sponde. Adesso cerca una sponda nei Verdi, alternativi e insieme complementari alle forze tradizionali di sinistra: un misto di cultura ecologista e progressista, ostilità alle opere pubbliche, attenzione ai problemi degli immigrati, che li rendono possibili alleati a Bruxelles. Anche se tradurre in Italia quei temi nella versione grillina rischia di diventare un alibi per chi, nel Movimento, non digerisce l’alleanza col Pd e teme di essere normalizzato. Ma il risultato sarebbe di radicalizzare e ritardare decisioni che hanno già provocato spaccature nella maggioranza con la Lega; e che promettono di riprodursi col Pd. Lo scontro di ieri con la ministra dem De Micheli è un assaggio di quanto potrebbe accadere nelle prossime settimane e in vista della manovra finanziaria. Se si somma alla riunione coi ministri grillini convocata ieri da Di Maio, Conte non può stare tranquillo. Il «capo politico» del M5S, sebbene contestato o forse per questo, vuole rivendicare il proprio ruolo. E usa in modo irrituale il nuovo ministero come succursale di Palazzo Chigi, dove non può andare perché non è più vicepremier. Dunque, spedisce un messaggio non tanto al Pd ma al presidente del Consiglio: Di Maio non rinuncerà a marcare l’identità e la separatezza della componente grillina rispetto allo stesso Conte. Si tratta di una conferma che i pericoli al governo verranno da un elettorato freddo e sconcertato dalla soluzione della crisi, e dal capo di un Movimento a caccia di rivalse.
«La Cina può ancora essere un’alternativa al capitalismo» Intervista all’intellettuale cinese Mobo Gao, professore all’università di Adelaide e autore di «Constructing China». La produzione di conoscenza è dominata dall’Occidente e dal capitalismo. Il problema è che l’élite intellettuale cinese in gran parte è inserita in questo sistema di produzione. Xi ha ancora la convinzione di poter ottenere qualcosa di migliore per il popolo quando dice di non usare gli ultimi 30 anni di Repubblica popolare per denigrare i primi 30.
Originario dello Jiangxi e oggi professore di chinese studies in Australia presso l’università di Adelaide, Mobo Gao rappresenta una delle tante anime della cosiddetta «Nuova Sinistra» cinese, termine con il quale si identifica un filone di pensiero – molto variegato al proprio interno – che, attraverso approcci anche multidisciplinari, tenta di rileggere la recente storia e l’attualità cinese contestualizzandola rispetto alle categorie occidentali. Un parte di questo filone di autori, inoltre, si è dedicato in modo specifico alla Rivoluzione culturale e al suo afflato trasformativo iniziale. Se Wang Hui e altri si sono concentrati sul concetto di modernità, per rispondere a chi ritiene che la Cina sia diventata «moderna» solo con l’arrivo del capitalismo e delle riforme di Deng, Mobo Gao pone la sua attenzione su una lettura della storia cinese capace di rendere esplicito il cortocircuito creato dagli Asian studies di matrice americana e sviluppatisi per lo più nell’epoca della guerra fredda (e capaci, naturalmente di influenzare anche altri paesi, nonché l’intero sistema mediatico). Il suo recente Constructing China, Clashing Views of the People’s Republic (Pluto Press, pp. 288, 26,99 dollari, 2018) rappresenta un ottimo sunto del metodo di Mobo Gao (il suo libro precedente, pubblicato sempre da Pluto nel 2008 si intitola The Battle for China’s Past), concentrato a ridare la «conoscenza» negata alla Cina, secondo lui, dalla storiografia occidentale. Contemporaneamente Mobo Gao offre straordinari spunti interpretativi anche della Cina attuale. Partiamo da Hong Kong e quanto sta accadendo. La sua tesi è che sia Hong Kong sia Taiwan siano collegate al senso di identità e nazione cinese. Oggi dunque Hong Kong ci interroga ancora su «cosa è la Cina»? Sì, penso che Deng Xiaoping sperasse che dopo 50 anni dall’handover non ci sarebbero più stati «due sistemi», perché la Cina sarebbe diventata qualcosa di molti simile, se non proprio uguale, a Hong Kong. Con l’arrivo alla presidenza di Xi Jinping però le cose sono cambiate e non poco. La sua campagna anticorruzione ha minacciato i capitalisti di entrambe le parti. In secondo luogo, collaborare di fatto con i capitalisti di Hong Kong ha significato non occuparsi delle classi inferiori con il risultato che molti cittadini dell’ex colonia britannica si sono sentiti trascurati. Bisogna capire se Xi vorrà fare qualcosa al riguardo. In Constructing China, enfatizza il peso dei media e di molti studi occidentali nella demonizzazione della Rivoluzione culturale. A 70 anni dalla nascita della Repubblica popolare cinese, tuttavia, anche il giudizio del Pcc è negativo al riguardo (di recente è stato pubblicato un discorso di Xi Jinping nel quale l’attuale presidente ribadiva il giudizio del partito). Questo accade, perché, come lei stesso scrive, «quanto fatto da Deng dopo la morte di Mao dimostra quanto fosse reale la paura di Mao: la strada cinese al capitalismo era partita con lo smantellamento delle comuni»? Sì, e molto altro. Certo la Rivoluzione culturale è stata distruttiva in molti modi. Ci sono state tante vittime tra i funzionari e gli intellettuali ed è davvero difficile per loro e per le loro famiglie assumere atteggiamenti più storici e più impersonali nei confronti della Rivoluzione culturale; questo è comprensibile. Ma il fatto è che il capitalismo è un sistema mondiale che inghiotte tutti, compresi i membri del partito comunista cinese, perfino i suoi funzionari principali. Se leggiamo le opinioni di Zhao Ziyang (segretario del Pcc nel 1989 rimosso per le sue posizioni riformiste e di dialogo con gli studenti, ndr) espresse durante gli arresti domiciliari (pubblicate in Prisoner of State, Simon & Schuster Ltd, 2010, ndr), possiamo accorgercene appieno. Questo è il motivo per cui il ragionamento che il socialismo non può avere successo in un paese è così ragionevole. Per quanto riguarda Xi il discorso è più complesso perché credo abbia ancora la convinzione che la vera logica del Pcc sia quella di ottenere qualcosa di meglio per il popolo. Xi a dire il vero ha anche detto che non dovremmo usare gli ultimi trent’anni della Repubblica popolare, per denigrare i primi trenta. Oggi la Cina, seguendo il ragionamento del suo ultimo libro, sembra essere in grado, quanto meno più del passato, di dire «quello che è giusto» e «quello che è sbagliato». Ma quale immagine della Cina il Pcc è pronto a svelare al mondo? Non vi è consenso al riguardo. La maggior parte dei leader del Pcc è senza idee e ideali in questi giorni. Stanno lì per fare carriera. Wang Qishan, Xi Jinping e forse Li Keqiang potrebbero avere alcune idee per rispondere alla domanda. L’articolazione più esplicita è dello stesso Xi: cercare il destino comune dell’umanità (renlei gongtong mingyun) trovando un terreno condiviso, mettendo da parte le differenze per la coesistenza e lo sviluppo pacifici, da cui nasce l’idea della Nuova via della seta. Si suppone che questo sia valido (consentendo differenze) sia a livello internazionale sia a livello di politica interna. Qual è la differenza che si avvicina alla Cina tra ciò che lei chiama «Conoscenza» e «Atteggiamento»? La produzione di conoscenza dell’umanità al momento è dominata dall’Occidente e dal capitalismo. L’élite intellettuale cinese in gran parte è inserita in questo sistema di produzione. L’atteggiamento nei confronti della Cina è particolarmente duro perché né la sinistra né la destra trovano la Cina accattivante. La sinistra ritiene la Cina troppo capitalista e la destra troppo comunista. Inoltre vi sono atteggiamenti razzisti nei confronti della Cina. La conoscenza rafforza l’atteggiamento e l’atteggiamento induce un certo tipo di produzione di conoscenza. Si nutrono a vicenda. Durante il decennio di Hu Jintao c’era la sensazione che la Cina potesse cambiare, intendo, non in senso democratico, ma nel senso di una maggiore attenzione alla ridistribuzione e alle distorsioni dello sviluppo. Poi tutto è parso fermarsi. Perché? C’è stato un cambiamento molto positivo: l’abolizione di qualsiasi tipo di tasse agricole. È stata la prima volta nell’intera storia della Cina da oltre duemila anni. Hu probabilmente voleva fare di più, ma era troppo debole. Non sappiamo quale fosse la politica che si celava dietro il muro rosso di Zhongnanhai (il quartier generale del Pcc, ndr), ma suppongo che il motivo principale sia da ritrovare nell’interesse acquisito di tanti settori, un interesse autoprotettivo che ha fatto sì che i desiderata politici rimanessero all’interno del complesso di Zhongnanhai in quel momento. Ho il sospetto che Xi abbia voluto creare tanti piccoli gruppi politici sotto la sua guida proprio per questo motivo. Penso che sia la sua soluzione per aggirare i vari ostacoli ministeriali per l’attuazione delle politiche. Quello che chiamo «interesse acquisito» è il mondo delle imprese statali, dei principini (una fazione all’interno del Pcc composta da figli e parenti di funzionari del Pcc ndr)e dei comprador. Cosa pensa dell’uso di Xi Jinping di Mao? ha la convinzione che il Pcc dovrebbe e potrebbe servire meglio la Cina e il popolo cinese. Il suo insistere sul concetto di chuxin («l’aspirazione originaria») non è solo retorica ma un vero tentativo di ripristinare lo spirito e la legittimità del Partito comunista. In Cina, anche a causa della Nuova via della seta, si è riacceso un dibattito sul concetto di Tianxia (anche se lei ritiene che non sia un concetto adatto alla Cina di oggi). Cosa ne pensa? In che modo questo concetto può aiutare la Cina a proporre una governance globale? Posso capire l’intenzione del dibattito ma non credo che sia un concetto utile in questo mondo. Il «destino comune attraverso lo sviluppo pacifico» penso sia un concetto più accettabile al di fuori della Cina. Tianxia implica un centro e una gerarchia. Questo non è un concetto che risulta accettabile nel mondo moderno. In Italia è stato appena pubblicato «Il modello cinese» di Daniel A. Bell. Cosa ne pensi del libro prima di tutto? Non pensi che il contrasto tra democrazia e meritocrazia sia limitante, perché è inserito in una logica capitalista, senza immaginare altre possibilità? E ancora: un modello cinese può venire in grado di differenziarsi dall’evoluzione del capitalismo occidentale? Bell ha il merito di mostrare che le elezioni non dovrebbero essere l’unico criterio di legittimità con cui valutare un paese. Finora quella di Bell è l’unica voce disposta a combattere contro il discorso politico dominante in Occidente ed è stato preso sul serio. Si tratta di un risultato enorme. Ma ha dei limiti, in effetti. Poi sul fatto che esista o meno un modello cinese in grado di fornire un’alternativa non è una discussione che ha ancora portato a una risposta definitiva, che forse neanche può esserci. Dipenderà da due fattori principali: se la Cina sarà in grado di risolvere le sue contraddizioni e i suoi enigmi interni e fino a che punto l’Occidente vorrà strangolare la Cina prima che la Cina abbia successo. È in corso da tempo ormai uno straordinario impegno tecnologico della Cina, a proposito di Big Data, Intelligenza Artificiale, crediti sociali. E sembra che la Cina sia sulla stessa strada del paese occidentale verso uno «stato di sorveglianza» all’interno di un mondo caratterizzato dal «capitalismo di sorveglianza». Cosa ne pensi di questo? E quanto è importante la storia cinese in questo scenario di controllo sociale (penso ad esempio al sistema baojia o all’organizzazione dei quartieri più recente? Sì, questo è preoccupante per le persone come noi che sono individualiste e autonome. Ma potrebbero non essere così minaccioso, almeno non ancora, per molti in Cina. Per loro se obbediscono alle regole e alle leggi non ci saranno problemi, non importa quanto siano sotto sorveglianza. Per alcuni questo è positivo per la sicurezza personale. Questo è l’atteggiamento adottato da molti in Cina nei confronti del cosiddetto esperimento di credito sociale. In Cina al momento è difficile far rispettare qualsiasi norma e regolamento, anche quelli con le migliori intenzioni. Nella Cina tradizionale invadere la libertà personale e la privacy non era in generale un problema sociale perché la tradizione ne sottolineava l’obbligo, le responsabilità reciproche e le relazioni reciproche. Ora la Cina è cambiata troppo perché le persone non si preoccupino dello spazio personale. Quindi ritengo che questo potrà essere un problema in futuro.
«NON È SOLO una questione numerica: nel nuovo governo il Nord è assente soprattutto dal punto di vista politico. Ma vedo la possibilità che la questione settentrionale, oggi forte come non mai, torni al centro del dibattito. Ci sono tutti gli spazi e le condizioni perché questo avvenga». Roberto Maroni, già segretario federale della Lega Nord e più volte ministro, lancia la palla in campo. E il primo assist è proprio per la squadra giallorossa. «Ho mandato un sms a Lorenzo Guerini, uno dei pochissimi lombardi nel nuovo esecutivo: ‘Mi raccomando, gioca all’attacco, non in difesa’. E parlavo della questione del Nord». Ne parlava a un esponente del Pd. Cosa le ha risposto? «Mi ha inviato una risata. Guerini nel nuovo esecutivo si occupa di Difesa, ma è stato sindaco e amministratore. Con l’esperienza che ha può davvero dire la sua sull’autonomia regionale. E credo che lo farà. Anche perché io, da grande sostenitore di questo tema e da promotore del referendum, tornerò a sollecitarlo. È il momento che il Nord faccia sentire la sua voce». Come? Scendendo in piazza? «No, io non sono per le barricate. E neppure per la nascita di un nuovo partito. La Lega, questa Lega, va benissimo. Salvini ha cancellato il Nord dal simbolo del movimento, ma non dalla partita politica. Direi che basta iniziare a giocarla. A interloquire». Con un governo nato contro la Lega di Matteo Salvini? «La tentazione di considerarlo un governo ostile c’è.Ma proprio perché gli equilibri si sono spostati occorre spingere per il dialogo, interloquire in parlamento. Il luogo più giusto per far valere le istanze dei cittadini». Dove ha sbagliato Salvini? «Ha commesso un’ingenuità, l’ha ammesso lui stesso». Ne avete parlato? «Ci siamo sentiti nei giorni della crisi.Mi tornava in mente la situazione vissuta alla fine del ‘94, con il ribaltone orchestrato da Umberto Bossi ai tempi del primo governo Berlusconi. Io non ero d’accordo con lui. ‘Se esci dal governo’, gli dicevo, ‘non potrai ottenere il federalismo. Potrai solo fare la rivoluzione’. E alle barricate io preferisco l’attività di governo». Doveva farlo anche Salvini? «Matteo, in termini di consenso, è arrivato dove io e Bossi non siamo mai riusciti ad arrivare; poteva fare tutto. Pensavo che, all’indomani della vittoria sulla Tav, avrebbe puntato a rafforzare la sua posizione all’interno del governo. Chiedendo, per cominciare, i ministeri dell’Economia e delle Infrastrutture per la Lega. Ha fatto una scelta diversa e la situazione è precipitata. Da milanese, non ha considerato i bizantinismi del Rito romano della politica». Il trionfo della ricetta Maroni su quella sovranista? «Assolutamente no. Ognuno ha il suo stile e il mio è diverso da quello di Salvini. Il fatto che non si siano raggiunti i risultati sperati avrà conseguenze. Ma io non sono in cerca di rivincite. Mi appassiona la politica e oggi la seguo da osservatore». La leadership del Capitano è in discussione? «Lui ha tentato di far sposare due istanze: quella del Nord e quella del Sud. Ma non c’è riuscito. Perché – ormai lo ammette anche Francesco Boccia – ci sono due Italie e quella settentrionale continua a chiedere di essere ascoltata. Non vedo una crisi nella Lega. L’insofferenza non è nella base del movimento, ma nella classe imprenditoriale, nei ceti produttivi. Il mondo economico, per sua natura, non è pregiudizialmente avverso ad alcun governo. Quello che è mancato finora è stato il confronto. Questo esecutivo non può prescinderne. La flat tax può essere una risposta, l’autonomia delle Regioni pure». È ottimista? «Sono certo che qualcosa succederà. Con la Lega al governo bastava attendere con fiducia; oggi c’è un grande punto interrogativo. Sul fronte del governo c’è un’inversione di tendenza. Non tanto perché Francesco Boccia, ministro degli Affari Regionali, sia del Pd, quanto perché è pugliese. E quindi, per quanto capace, lontano dalle richieste del Nord. Però sento istanze di nordismo. E dalla Lega mi aspetto che, senza tornare al vecchio simbolo, si recuperino almeno le suggestioni nordiste». Cosa resterà delle politiche leghiste sulla sicurezza e l’immigrazione? «Conosco il nuovo ministro degli Interni, Luciana Lamorgese, con cui ho avuto modo di collaborare quand’ero al Viminale e poi in Regione Lombardia. L’ho chiamata, mi è sembrata emozionata. Le faccio tanti auguri perché il suo è un compito difficile. Sono certo, da superprefetto quale è, che saprà gestire i problemi della sicurezza con saggezza, prudenza e determinazione».
Nicola Zingaretti, è appena nato un governo che fino a poche settimane fa sembrava fantapolitico. La ragione di base è chiara: fermare Matteo Salvini. La domanda di tutti è: c’è altro? «Questo governo è un esperimento che ha già archiviato un brutto periodo per l’Italia: la stagione dell’odio, della perenne fibrillazione del quadro politico e della ricerca del capro espiatorio per fini di consenso personale. È un primo risultato di cui fare tesoro. Ora vorrei un governo che metta al centro le persone, la loro dignità e la capacità e voglia di realizzarsi e costruirsi il futuro. Evitando di ripercorrere strade fallimentari». Quali strade? «L’esperienza del governo giallo-verde conferma che non si può governare da nemici. Il programma condiviso tra Pd e M5S è un buon presupposto per un confronto che non dovrà essere di potere, ma di contenuti». Un governo di pacificazione nazionale, come dopo le guerre? «Non so se di pacificazione, ma di svolta senz’altro. Il rispetto reciproco deve essere una bussola costante dell’azione di governo. Intanto segnalo che la sua sola nascita è già valsa il risparmio di 5 miliardi di euro di interessi sul debito e, di questo passo, potrebbe valerne 15 nel 2020». Ma perché i 26 punti del programma, alcuni alquanto vaghi, dovrebbero funzionare meglio del contratto giallo-verde? «Non sottovaluterei il rifiuto dell’idea del contratto, la cui fragilità stava nella pretesa di sommare due programmi in contrapposizione. Conte e il M5S hanno creduto alla strada di un programma condiviso, che ora il premier dovrà sintetizzare. Mi pare un grande passo avanti». Quando Salvini ha aperto la crisi lei ha detto subito: al voto. Questo è un governo che ha dovuto subire? «Ho vinto un congresso sulla proposta di una alternativa al governo giallo-verde. Ma sin dall’inizio della crisi mi sono posto come obiettivo che il Pd arrivasse unito al traguardo, che fosse il voto o un nuovo governo. Abbiamo rischiato la deflagrazione del Pd. Quando ho capito che il partito poteva arrivare unito all’alleanza, ho ritenuto fosse un dovere provarci». È stato decisivo Renzi. «C’è stata un’iniziativa di Matteo, che ha cambiato posizione affermando che l’intesa con il M5S, vista la situazione, non poteva più essere un tabù. Poi Bettini ha ragionato sul fatto che non potesse bastare un governo a termine. Io ho ascoltato. Vengo spesso criticato per il fatto che non alzo la voce o non sbatto i pugni sul tavolo, ma io rivendico il fatto di fare il leader in un altro modo, guidare il partito, fare una sintesi, passi in avanti senza divisioni». Però ha dovuto cambiare idea. «È stato tutto molto trasparente e vissuto in un dibattito pubblico. Non mi sono rifugiato nell’immobilismo ma nemmeno nell’idea del governo a tutti costi. Sarebbe stato un regalo a Salvini. Alla meta siamo arrivati a schiena dritta, con i nostri contenuti: lavoro, crescita, modifica dei decreti sulla sicurezza, nuova Europa». Quanto hanno pesato le pressioni dei padri nobili del Pd come Prodi o quelle internazionali? «Vorrei sfatare la leggenda delle pressioni e delle telefonate. C’è stata, questa sì, la forte percezione che una parte rilevante del nostro mondo chiedesse al Pd di ritrovare il suo ruolo di pilastro del buon governo e garante della democrazia». Ma ancora una volta senza passare dalle elezioni. «Non c’è nessun tradimento del voto popolare. Il governo giallo-verde mise insieme il primo e il terzo partito. Stavolta sono insieme il primo e il secondo». A proposito di telefonate, è vero che Salvini l’aveva chiamata per assicurarsi che il Pd avrebbe chiesto il voto anticipato? «Questa è un’altra costruzione ad arte. Con Salvini ci siamo sentiti ma non certo per valutazioni o accordi sottobanco. A Salvini bastava leggere i giornali per capire che il tema 5S era divisivo nel Pd…». Salvini, insomma, non aveva previsto la mossa di Renzi. Che voleva evitare, con il voto, di perdere la sua maggioranza nei gruppi dem al Parlamento. «Penso che Renzi, di fronte al pericolo vero di una affermazione schiacciante di Salvini, si sia sentito in dovere di assumere una nuova posizione, anche a costo di superare le scelte politiche del passato». Però se è stato giusto allearsi ora con il M5S per fermare Salvini, allora fu un errore non farlo dopo le elezioni del 4 marzo. «All’epoca non ero io il segretario. Il 4 marzo vincevo le elezioni e restavo presidente della Regione Lazio. Posso però dire questo: l’idea di non equiparare Lega e M5S era uno dei passaggi chiave del mio impianto politico, votato ai gazebo delle primarie non da 60 mila persone, con tutto il rispetto per il referendum su Rousseau, ma da 1 milione e 600mila cittadini». Al terzo tentativo, il primo fu quello di Bersani nel 2013, l’intesa è fatta. È l’unione di due debolezze? «Assolutamente no. Anche perché non vorrei si rimuovesse il voto delle europee, la ritrovata centralità del Pd, i nostri sondaggi in crescita. Ci sono poi pilastri importanti. Intanto il cambio di collocazione strategica in Europa. L’Italia era la pecora nera, che stava scivolando nell’alleanza di Visegrad. Oggi il Pd esprime il presidente del Parlamento europeo, un commissario che si chiama Paolo Gentiloni, un ministro dell’Economia di lunga esperienza a Bruxelles e il ministro degli Affari Europei. Premesse che garantiscono un giusto rapporto con la Ue, non per conservare l‘Europa che c’è, ma per una svolta economica e sociale». Quello con il M5S sarà un patto tra due forze che alla fine del governo si separeranno o l’obiettivo è una nuova coalizione? «È successo tutto in 20 giorni, non so quale sarà l’approdo finale. Credo che, in partenza, siano aperte entrambe le strade, noi dobbiamo con serietà continuare in una ricerca comune». Tra poco si vota in Umbria, Emilia-Romagna e Calabria. Auspica accordi con il M5S? «Decideranno le Regioni sulla base di convergenze di programma, come è giusto che sia». Torniamo al programma. Sullo stop all’aumento dell’Iva è facile essere d’accordo, ma che leggi dobbiamo aspettarci dal governo? «Intanto non c’è più l’ingiusta flat tax ma il taglio delle tasse per i redditi più bassi. C’è un approccio comune e non banale sul modello di sviluppo basato sulla green economy. C’è il rilancio dell’agenda 4.0 per le aziende. Gli investimenti su scuola, università e ricerca. Il piano casa nazionale». Anche il salario minimo? «In un confronto con le parti sociali». Sicuro che il governo proceda in armonia e ordine su così tanti temi? «Sì, l’humus è una agenda comune e condivisa che rimuove dal campo l’idea che il problema dell’Italia sia la Sea Watch o la capitana tedesca». Non è chiaro come saranno cambiati i decreti di Salvini. «Intanto ci sono i rilievi mossi dal presidente Mattarella. A Conte abbiamo chiesto che si vari una legislazione che coniughi tre pilastri: la sicurezza, la legalità e l’umanità». Non teme che nel frattempo si continui ad applicare il decreto sicurezza? «Bisognerà affrontare in fretta il tema perché non ci si trovi in situazioni imbarazzanti. Certi casi non si possono ripetere con il nuovo governo. I continui sbarchi in agosto confermano che le scelte del ministro uscente dell’Interno sono state fallimentari. Che poi forse è anche il motivo che ha portato il presidente Conte, di concerto con Mattarella, a portare al Viminale una prefetta, cioè una figura che sfuggisse al rischio di usare le istituzioni per fini di propaganda». Ma il Conte che inizialmente lei non voleva di nuovo a Palazzo Chigi chi è? L’anti-Salvini dell’ultimo mese o il premier che difese il ministro sul caso Diciotti? «Conte ha puntato con decisione alla nascita di questo governo. Condivide l’investimento nella ricerca di un rapporto diverso, fondato sulla chiarezza e il riconoscimento delle ragioni dell’altro». Di Maio, invece, dice da giorni che per lui Lega e Pd pari sono. «Non ho avvertito questi toni .Noi abbiamo costruito una intesa non con una parte, ma con tutto il M5S». Riforme istituzionali. Diventerà una legislatura costituente? «Non mi affascinano le etichette. So che i capigruppo hanno raggiunto un buon accordo, si è recepita la volontà di un taglio parlamentari e la necessità di farlo dentro una cornice di garanzie costituzionali». La legge elettorale? «Sarà uno dei temi da affrontare». Calenda se ne è andato e fonderà un suo partito. «Mi spiace per Carlo. Comprendo le sue ragioni ma non le condivido. Le strade torneranno a incrociarsi». Un’ultima domanda. Quanto ha sentito il peso di guidare una nave che rischiava, e forse richia ancora, il naufragio? «Tantissimo. Ma ho dato tutto me stesso. Resto fedele allo slogan con cui ho vinto il congresso: da soli si va più veloce, insieme si va più lontano».
Non voleva mollare, il professor Marco Ponti. Non mollava nemmeno dopo che perfino il ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli sembrava rassegnato. «Fermare l’alta velocità Brescia-Padova sarebbe troppo costoso…», faceva mestamente osservare il 3 luglio scorso una nota del suo ministero. Ma Ponti, tecnico di riconosciuta competenza ma critico su molte grandi opere, a cui i grillini avevano affidato il totem dell’analisi costi-benefici, insisteva. E venti giorni dopo, davanti ai microfoni di Agorà estate, si faceva sentire eccome: «Fare la Brescia-Padova? L’analisi costi-benefici dice un no grande come una casa. Costi superiori ai benefici. Costa 8 miliardi». Tanto era bastato perché il Pd chiedesse ancora una volta le dimissioni di Toninelli. Senza immaginare che il suddetto ministro sarebbe saltato, ma per ragioni del tutto indipendenti da quella richiesta. Né che appena quaranta giorni dopo su quella poltrona si sarebbe accomodata la vice segretaria dello stesso Partito democratico, Paola De Micheli. Così ora va in scena un altro spettacolo. Che prevede, per prima cosa, il pensionamento immediato della mitica analisi costi-benefici. Ossia quel calcolo con cui la commissione di sei membri presieduta da Ponti, e di cui facevano parte ben cinque esperti ostili alla ferrovia Torino-Lione, aveva bocciato la Tav. Innescando per paradosso l’incendio che avrebbe poi scatenato la crisi del governo grilloleghista e quindi la sua stessa fine. Una fine scontata. Per il Pd ora alleato di governo del M5S l’analisi costi benefici imposta nel contratto con la Lega di Matteo Salvini per tutti i progetti infrastrutturali era una foglia di fico per mascherare decisioni già prese. Un misero espediente che serviva a giustificare il blocco totale delle opere giudicate inutili dai grillini. Senza però riuscire, a ben vedere, nemmeno nell’intento di fermarle del tutto. Ma a rallentarle, quello sì. Si è visto con l’asse Campogalliano-Sassuolo, a cui il Movimento 5 stelle non aveva dato tregua: l’analisi costi-benefici voluta da Toninelli avrebbe poi dato esito positivo, ma intanto si erano perduti altri mesi. Basterebbe poi ricordare la battaglia sulla Torino-Lione, cassata in teoria da un calcolo clamorosamente sconfessato dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Il quale, dopo aver pubblicamente affermato che «costerebbe più fermarla che non farla», ha aggiunto che «soltanto il Parlamento potrebbe decidere di non farla». E in Parlamento sappiamo cosa è successo, con i grillini a sbattere contro un muro e il governo andare in pezzi. Ma se il passaggio del ministero delle Infrastrutture dai 5 Stelle al Pd può essere considerato il segno che la resistenza parlamentare grillina su questo fronte appare fortemente ridimensionata (ci sono da sbloccare 62 miliardi di opere secondo i calcoli Ance), c’è da aspettarsi che la forza del contrasto si trasferisca sui territori. I gruppi locali del M5S del Basso Garda non hanno mai smesso di contestare la Brescia-Padova, neppure dopo che il ministero di Toninelli sembrava aver ceduto alle pressioni leghiste. Così come gli attivisti No-Tav non si sono mostrati affatto demoralizzati nel momento in cui Conte ha fatto cadere il veto. La ragione è semplice, ed è ideologica: il no alle grandi opere è uno dei presupposti fondanti del M5S. Al punto che il Movimento si è sempre tassativamente opposto all’eventualità di sottoporre la questione a un referendum. I tamburi grillini continuano a rullare. Se nei giorni dell’intesa giallo-rossa la consigliera regionale piemontese e valsusina Francesca Frediani ammonisce «Stop alla Tav o niente alleanze», il capogruppo grillino al Comune di Firenze Roberto De Blasi spara a zero sull’aeroporto e sulla stazione dell’alta velocità ferroviaria. Ed è niente rispetto a quello che si profila su altre opere simbolo dell’intransigenza grillina come la Gronda di Genova, il raccordo autostradale che consentirebbe di aggirare la città duramente contestato dai meet up locali, bloccato non soltanto con i risultati dell’analisi costi-benefici ma anche con la scusa di perfezionare l’iter di revoca della concessione alla società Autostrade. E giusto qualche settimana prima della crisi di governo. Ecco il clima che si prepara per il ministero ritornato a trazione dem. Dove avranno ben presto a che fare con altre belle rogne. Nel programma sottoscritto dai soci di governo c’è pur sempre la revisione delle concessioni autostradali: e se questa spada di Damocle di per sé non potrà bloccare la costruzione di nuovi tratti autostradali, non è detto che non riesca a complicare la vita a certi investimenti già previsti dai concessionari. Soprattutto, nell’agenda c’è la nomina dei commissari previsti dal cosiddetto decreto “sbloccacantieri”. Un’ottantina di esperti e funzionari ai quali il precedente governo avrebbe voluto affidare il compito di far ripartire altrettante opere impantanate nella burocrazia. Varato dal governo il 18 aprile, è stato convertito in legge il 14 giugno ed è entrato in vigore il 18 successivo, senza partire come un razzo nonostante l’estrema urgenza. In più, le nomine vanno ratificate dalle commissioni parlamentari, e i tempi si allungheranno. Con il rischio che tutto si trasformi in una gigantesca beffa. E forse chi ha deciso di imbarcarsi in quest’avventura avrebbe fatto bene a fare uno sforzo di memoria. Ricordando che un decreto “sbloccacantieri”, proprio così l’avevano chiamato anche allora, era stato partorito dal ministro dei Lavori pubblici Paolo Costa nel lontano 1997: primo governo Prodi. Quasi identico a questo, prevedeva la nomina di commissari ad acta per sbloccare i cantieri che anche 22 anni fa, come oggi, erano paralizzati. Un anno dopo la Corte dei conti scoprì che era stato un clamoroso flop. Quasi tutti i cantieri erano bloccati: la burocrazia si era dimostrata invincibile. Paola De Micheli è avvertita.
Tailleur bianco e blu, i colori della Scozia. Parole come sciabole, alla Braveheart. Obiettivo chiaro, e sempre più vicino: l’indipendenza da Londra. La “first minister”, cioè la premier scozzese Nicola Sturgeon, 49 anni, leader del partito nazionalista Snp e indipendentista di ferro, ci accoglie nel Parlamento di Edimburgo. È un momento decisivo. Perché proprio da qui, dalla sempre ribelle Scozia, potrebbe partire la disintegrazione del Regno Unito oggi profondamente lacerato dalla Brexit, dopo l’“Act of Union” che nel 1707 riunì il Regno d’Inghilterra e quello scozzese. Qui a Edimburgo spira una beffa tremenda: molti nel referendum d’indipendenza del 2014 (vinto dagli unionisti con il 55,3%) votarono per restare in Regno Unito anche perché, all’epoca, la Brexit pareva impensabile. Due anni dopo, però, il mondo si è capovolto e nell’europeista Scozia, dove addirittura il 62% ha votato contro la Brexit, sono tornati tempestosi i venti di un secondo referendum, cui premier britannico Boris Johnson si oppone fermamente. Lo spettro del No Deal, cioè la pericolosa uscita senza accordo di Londra dall’Ue corteggiata da Johnson, ha diffuso ulteriore irritazione. E così Sturgeon guida la rivolta per lasciare, il prima possibile, il Regno Unito. Secondo i sondaggi, gli indipendentisti in Scozia stavolta possono farcela. dopo oltre quattro secoli di unione, il Regno Unito potrebbe frantumarsi, per sempre. Signora Sturgeon, e ora che succede? «Difficile prevederlo. Spero che non ci sia il No Deal e che alla fine la Brexit venga annullata. In ogni caso, noi in Europa ci rimarremo, perché il nostro obiettivo finale è l’indipendenza della Scozia». Quindi lei crede che presto ci sarà un secondo referendum, Brexit o no? «Sì. E la Scozia sceglierà di essere indipendente. Non voglio far parte di futuro così pieno di sofferenze. È frustrante che il destino della Scozia sia in mano a incontrollabili forze esterne. Per questo, dobbiamo riprenderci il destino nelle nostre mani. E l’unica strada è l’indipendenza». Nel 2014 però l’Europa si schierò contro l’indipendenza della Scozia e al fianco di Londra, anche perché ci sono simili bollenti casi in Ue, come la Catalogna. Dopo la Brexit, qualcosa è cambiato da parte degli europei? «Assolutamente sì. Dopo la Brexit, molte più persone comprendono le ragioni del nostro indipententismo. E credo che l’Ue accoglierà molto volentieri un Paese come la Scozia che vuole continuare a farne parte. Sto avendo molte conversazioni con le autorità europee: posso ben dire che la loro posizione è cambiata sensibilmente nel tempo». E da indipendenti adottereste l’euro, come i nuovi membri Ue sono tenuti a fare? «Non credo che la Scozia adotterà mai l’euro. O almeno non in un prossimo futuro. Non possono costringerci». La Scozia diventerà una nuova Catalogna? Organizzerà referendum illegittimi come visto a Barcellona? «Nel 2014 c’è stato un referendum legale, consensuale. Questa è la strada da ripetere. La mia volontà è di tenere una seconda consultazione popolare l’anno prossimo. E badate: il nostro nazionalismo non è come quello dei brexiter intolleranti e insulari. È molto più sano e costruttivo». Quindi lei non considererebbe altre “modalità” di referendum se il governo centrale a Londra, vedi Boris Johnson, ponesse il veto? «Bloccare un secondo referendum sarebbe inaccettabile e antidemocratico. A lungo andare sarà una posizione insostenibile da queste parti». Teme un futuro di disordini e caos in Scozia, soprattutto in caso di No Deal? «Le conseguenze di un No Deal sarebbero molto pesanti anche qui. Non voglio preannunciare violenze nelle strade e stiamo facendo il possibile per mitigarne le conseguenze. Ma certo molte persone finirebbero nei guai. Le pare giustificabile che in un Paese così sviluppato vengano a mancare cibo e medicine?». La Brexit è l’inizio del disfacimento del Regno Unito? «È più di un inizio… (ride, ndr). Di certo la Brexit ha accelerato il processo e ha dimostrato l’inabilità di Londra di considerare opinioni diverse in uno stato composto di quattro nazioni diverse. Ora non si può tornare indietro». Lei qualche settimana fa ha incontrato Boris Johnson. Che impressione le ha fatto? «Nessuna sorpresa. Purtroppo, come in pubblico, con me ha fatto lo spaccone, ha dato risposte vaghe, senza dettagli, pensa che mostrarsi forte e positivo faccia cascare le cose dal cielo». Un po’ come Trump. «Gli somiglia molto. Anzi, secondo me aspira proprio ad esserlo. Accentua le divisioni, è polarizzante. E poi non ti puoi fidare di lui. Sulla Brexit, per esempio, i negoziati e i progressi che sbandiera sono una farsa. Vuole il “No Deal”, mi pare evidente. Insomma, non gli credo. Proprio non ce la faccio».
Lo avete sentito anche voi il botto? È caduto Negroponte. Il grande Nicholas Negroponte. Quello che ha insegnato a tutti come sarebbe stata la vita con Internet quando ancora nemmeno sapevamo cosa fosse la rete. Il guru dei guru. Non è inciampato. Peggio. Insomma, stava parlando al MediaLab del Mit di Boston, nell’istituto che ha fondato e diretto per vent’anni e di cui ancora, a 75 anni, è presidente emerito non solo per le idee brillanti che ha avuto ma anche perché ogni mattone qui, ogni router, è stato pagato con la montagna di soldi che ha saputo raccogliere nel tempo. Stava parlando con una certa passione e quella sua soave capacità affabulatoria che ne ha fatto uno degli oratori più richiesti del mondo, e all’improvviso gli studenti lo hanno contestato, di brutto; una ragazza si è anche messa a piangere per quello che aveva ascoltato, c’è stata una baraonda, una docente gli ha urlato “stai zitto, Nicholas”, qualcuno gli ha sentito mormorare “ingrati!” e poi Negroponte si è dileguato. Sparito. Dissolto. Come se fosse stato un ologramma. Come fosse stato davvero fatto di bit e non di atomi, come qui amano dire. Alle otto di sera del 4 settembre al sesto piano di questo edificio scintillante e trasparente dove si vedono robot e droni ovunque, dove respiri un futuro bellissimo negli sguardi di chiunque, non si parlava d’altro. Teoricamente era la festa di apertura dell’anno accademico ma non era andata esattamente come previsto. Il deejay continuava a proporre musica che nessuno aveva voglia di ballare. Erano tutti lì, sul terrazzo con vista sul fiume, a parlare di “Nick”, e della reputazione del MediaLab e di questa brutta storia di Jeffrey Epstein che rischia di travolgere le migliori istituzioni accademiche americane. Epstein, il miliardario accusato – con prove schiaccianti – di aver messo su un giro di prostitute minorenni per sé e per i suoi amici potenti. Quello che secondo una ricostruzione incredibile fatta da quattro testimoni pensava di usare il ranch del New Mexico per mettere incinta più donne possibili e spargere il suo Dna nella razza umana. Quello che si è misteriosamente, e secondo molti, provvidenzialmente ucciso in carcere ad agosto, quando le donne che avevano iniziato a raccontare le sue violente perversioni erano iniziate a spuntare ovunque. Ecco, Epstein. Finanziava alcune delle grandi università americane. Harvard in testa: sei milioni e mezzo di dollari. E il MediaLab del Mit. Perché lo faceva, è esattamente il motivo perché adesso a Boston si interrogano se in questi anni non si sia sbagliato tutto. Troppa vicinanza al potere? Troppa indulgenza in cambio di finanziamenti alla ricerca? Il rapporto fra Epstein e alcuni dei migliori scienziati americani lo raccontano così: lui era un giovane professore di fisica di New York che per una serie di circostanze si ritrova a fare il finanziere a Wall Street quando la Borsa vola e fa un sacco di soldi. Nel 2008 viene condannato per aver fatto sesso con una 14enne. Tredici mesi in carcere. Quando esce ha ancora tanti soldi ma una reputazione da ricostruire. Si rivolge a un mitico agente letterario, John Brockman, che gli dice in sostanza: investi negli scienziati, sono le nuove rockstar. Finanzia qualche ricerca sul cancro, sostieni la genomica, battiti contro il cambiamento climatico. Epstein lo fa e trova le porte aperte, anzi spalancate. Sostiene ripetutamente di donare circa 20 milioni di dollari all’anno alla ricerca e nel curriculum si definisce “filantropo della scienza”. Epstein arriva naturalmente anche al MediaLab del Mit dove Negroponte dal 2011 ha incoronato Joi Ito, un brillantissimo imprenditore giapponese di 45 anni che non si è mai laureato. Bello schiaffo all’accademia, no? Ito fa benissimo come capo del MediaLab, ma prende i soldi di Epstein, per il Mit e anche per i suoi fondi di venture capital con cui investe in startup. Quando Epstein si uccide, la cosa viene fuori e molti ne chiedono le dimissioni; Ito si scusa solennemente, promette di restituire ogni dollaro ma non basta; Ethan Zuckerman, una star del MediaLab, attivista dei diritti civili, lascia per protesta. Non il solo. E arriviamo al 4 settembre. Alla festa di apertura dell’anno accademico. C’era Joi Ito naturalmente, che ha chiesto scusa di nuovo ma figurarsi se si dimette; qualcosa cambierà nel suo corso però, al posto di “etica” che francamente appare esagerato, insegnerà awareness, consapevolezza: Ecco, meglio. C’era Zuckerman che ha augurato il meglio per il MediaLab senza di lui. E alla fine, pur senza essere in scaletta, ha preso la parola Negroponte. Ha rivendicato il suo ruolo di «uomo bianco ricco e privilegiato che conosce personalmente l’80 per cento dei miliardari d’America», grazie ai quali il MediaLab è un paradiso per giovani scienziati. E visto che tutti sanno che è stato lui a presentare Epstein a Ito, ha scandito la frase: «Oggi gli direi ancora di prendere quei soldi. Lo ri-fa-rei». Secondo il resoconto fatto a caldo dalla rivista del Mit, lo rifarebbe pur sapendo delle recenti accuse. Secondo la lettera che Negroponte ha mandato qualche ora dopo al Boston Globe, lo rifarebbe senza sapere delle accuse. Ma nei capannelli della sera, molti studenti si chiedevano: qual è la differenza? Epstein era già stato condannato nel 2008 per lo stesso reato. Joi si deve dimettere, e Nicholas con noi ha chiuso.