Roberto Gualtieri è entrato ieri nel ministero dell’Economia giusto in tempo per le decisioni più difficili. Il nuovo responsabile prende possesso dell’ufficio al piano nobile di via XX Settembre — una sala vasta, vuota, dai soffitti altissimi — sapendo cosa lo aspetta: fra sette giorni a Helsinki vedrà tutti i suoi colleghi europei eicommissari Ue e sonderà fin dove può spingere al rialzo, senza strappi dannosi, il deficit nel 2020. Quindi avrà due settimane per stendere una «nota di aggiornamento» imperniata sul quel nuovo dato di disavanzo. Infine altre due per distribuire in legge di Bilancio i sacrifici inevitabili e i (limitati) benefici possibili. Gualtieri martedì notte era nel suo alloggio a Bruxelles, impegnato a studiare le carte per l’audizione all’europarlamento di Christine Lagarde dell’indomani. Il mattino dopo ha annullato la sua presenza all’incontro con la francese che deve prendere il posto di Mario Draghi alla guida della Banca centrale europea, ed è riapparso ieri per il giuramento al Quirinale. Gualtieri nelle foto sorride, ma perilresto del tempo è rimasto a lungo serio. Sa di poter contare su contatti diretti con tutti i principali attori della politica economica europea. E gli serviranno, dati i numeri che eredita da M5S e Lega. Perché il risultatoèchiaroachi, come lui, ha già fattoiconti: il nuovo governo di M5S e Pd finirà con l’indicare un obiettivo di deficit nel 2020, ironicamente, vicinissimo a quel 2,4% del prodotto lordo (Pil) che un anno fa agitò i mercati e fece saltare i rapporti fra Roma e Bruxelles. La scommessa, per Gualtieri, è farlo senza contraccolpi in Europa e fra gli investitori. I numeri del resto non lasciano scelta, malgrado l’apertura di credito offerta ieri da Fitch. Il governo di Paolo Gentiloni nel 2018 aveva lasciato al primo gennaio prossimo aumenti dell’Iva per 19 miliardi: clausole per mostrare a Bruxelles che il disavanzo sarebbe sceso verso lo zero. Il governo Lega-M5S ha comportato un aumento di spesa corrente di quasi un punto di reddito nazionale, circa 15 miliardi, per due motivi. Il primo è l’introduzione delle pensioni anticipatea«quota 100» e del reddito di cittadinanza; il secondo l’aumento degli interessi sul nuovo debito pubblico dovuta al sospetto che l’Italia fosse disposta a uscire dall’euro: il costo medio dei nuovi titoli era stato di 0,68% nel 2017 ed è salito a 1,07 nel 2019. Vista la taglia del debito, fanno quasi due miliardi di spesa in più all’anno che sarebbero stati evitabili. L’effettoèche M5S e Lega hanno alzatoa23 miliardi le clausole di aumento automatico dell’Iva dal primo gennaio, solo per stabilizzare il deficit. Ora il calo degli interessi sul debito iniziatoagiugno scorso sta liberando un po’ più di tre miliardi di spesa nel 2020 e circa altrettanto da un uso minore del previsto di «quota 100». Il risultato netto è che il deficit nel 2020 sarebbe probabilmente di circa l’1,6% del Pil o poco più, se scattassero quegli aumenti Iva (che tutti promettono impedire); ma salirebbe a un politicamente insostenibile 3% del Pil senza gli aumenti Iva. Di qui la prima missione di Gualtieri: deve trovare nel bilancio oltre 15 miliardi di risparmi o nuove entrate per riportare anche l’anno prossimo il deficit verso il 2% del Pil, dove arriverà anche quest’anno. Il ministro sa già che una stretta di queste dimensioni sarebbe troppo pesante per un’Italia già oggi a crescita zero, mentre la Germania è vicina alla recessione e la produzione industriale è quasi ferma persino negli Stati Uniti. Per questo il ministro ha davanti a sé un’alternativa: può restituire agli italiani parte dei sacrifici sotto forma di tagli alle tasse sul lavoro dipendente, o può limitare molto la stretta di bilancio. In entrambi i casi il deficit è destinato a salire verso il 2,5% del Pil nel 2020. Per questo farlo in accordo con Bruxelles è così importante: una rottura politica costerebbe cara sui mercati.
D i solito i commentatori non ne azzeccano molte. Ma tre giorni fa su R epubblica Piero Ignazi, politologo dell’Alma Mater di Bologna, ha scritto lapidario: “Il voto su Rousseau non darà sorprese”. E così è stato. Poi ha anche sancito che questa operazione –ieri suggellata con il giuramento al Quirinale – “comporta molti più rischi per il Pd che per i 5Stelle”. Professore, lei dice che se l’esecutivo non sarà più rosso che giallo il Pd si ritroverà ai margini del sistema partitico. Ce lo spiega meglio? Ques t’operazione è high gain-high riskper il Pd, ad alto potenziale di guadagno, ma anche di rischio. Il guadagno è l’egemonia su sinistra e centrosinistra: a sinistra non c’è più nulla e può andare a rosicchiare voti verso il centro, sia dai 5Stelle sia dal bacino del 40 per cento delle Europee 2014. Tutte le ricerche hanno dimostrato che quel risultato non dipende da voti presi a destra, ma dal fatto che tutti quelli che per due decenni avevano votato a sinistra e poi si erano allontanati, avevano ritrovato in Renzi la voglia di riprovarci. Il beneficio è quindi recuperare ciò che con i governi Renzi e Gentiloni è andato via via disperdendosi. E il rischio? Di finire come i socialdemocratici tedeschi, schiacciati tra una risorgente rivalità tra Lega e 5Stelle. Sarà, come ha detto Massimo D’Alema, l’o cc a s i o n e per il Pd di ricucire un dialogo con tanti che da sinistra si sono spostati verso i 5Stelle? Difficile da dire: non c’è stato tanto uno scambio tra le due basi, più che altro un’emorragia continua di elettorato popolare dal Pd perché le politiche socio-economiche avevano preso direzioni diverse. E poi il voto giovanile che non ha più favorito i dem, preferendo massicciamente i 5Stelle, tra il 2013 e il 2016. Non so però se quella parte di borghesia che sostiene il Pd apprezza questa nuova alleanza: spero che il cosiddetto ceto medio riflessivo non si allontani dal Pd. Parliamo dei 5Stelle: si sono spostati definitivamente a sinistra, con Grillo, o continuano a essere post-ideologici, con Di M a i o? Bella domanda. Dipende tutto da Grillo: abbiamo visto che se lui apre bocca, tutto cambia. Questo è ancora il partito di Beppe Grillo. Può darsi che qualcuno, Di Maio in particolare, crei problemi. Se i 5Stelle riscoprono l’anima grillina, possono recuperare molti elettori che l’anno scorso li avevano votati. Questo metterebbe il Pd all’angolo. Gli scenari sono due: dipende quale forza si dimostrerà egemone. E Giuseppe Conte? Sarà il nuovo leader dei 5Stelle secondo lei? Il suo ruolo è cambiato radicalmente: da colui che aveva chiesto a Di Maio ‘Que sto posso dirlo?’ a colui che è stato il motore di questo cambiamento. A questo punto nel Movimento c’è una triade: il leader assoluto Grillo, il capo politico Di Maio e Conte, effettivo capo del governo. I banchi dell’op p os izione sono occupati solo da forze di destra. Il tripolarismo è finito? Diciamo che – siamo solo all’inizio – il tripolarismo è potenzialmente ricomposto in un bipolarsimo. Alla Lega farà bene un periodo di opposizione? È un partito in grandissima difficoltà: ciò su cui la Lega del Nord puntava, cioè l’a utonomia, è ormai perduto. E questo per Salvini è un problema. Poi dipende quanto si potrà rilanciare sull’i mmigrazione. Un leader che fa la faccia feroce e poi subisce quell’inaudita umiliazione dal premier Conte in Senato, in una diretta vista da 15 milioni di persone, ha davanti una strada in salita. Quel dibattito se lo ricorderanno tutti. È difficile che Salvini si scrolli di dosso in breve tempo lo stigma di una sconfitta così mortificante e così pubblica. Av re m o quasi certamente una legge propo rz io nale: non si era sempre detto che il m a g g i o r itario serviva a un sistema con due forze politiche forti? Giovanni Sartori ci ha insegnato che esistono tendenze nei sistemi elettorali, non rapporti di causa effetto. Tra l’altro ricordava sempre il Canada, dove c’era un sistema maggioritario che produceva tre grandi partiti. Detto ciò: la legge proporzionale si rende necessaria vista l’intenzione di votare una significativa riduzione del numero dei parlamentari, che con l’attuale, pasticciatissimo Rosatellum, avrebbe effetti molto distorsivi sulla rappresentanza. Per ultima, la domanda più difficile: visto che ha azzeccato la previsione sul voto di Rousseau, quanto dura il Conte bis? No comment! Scherzi a parte, le variabili sono molte ed è troppo presto. I gruppi parlamentari del Pd sono compattissimi. Vediamo se i 5Stelle saranno collaborativi o se cominceranno a fare il Vietnam, se diventeranno un nuovo Bertinotti per il Pd: dipende se Grillo vorrà ancora pesare nella vita del Movimento o se sarà tutto nelle mani di Di Maio.
Cattiva Congiuntura 1 – Economia Italiana 0. Così si è chiuso ieri, con il giuramento dei ministri del nuovo governo, il primo tempo della “partita economica” del nostro Paese in questa legislatura. Sempre con questo giuramento, il Presidente Mattarella ha posto la palla al centro e dato il fischio d’inizio al secondo tempo. Con quali prospettive di rimonta? Per rispondere a questa domanda occorre una dura premessa: non esistono risposte facili a problemi complessi come invece si era illuso il governo precedente. Un indebolimento rispetto agli altri paesi avanzati che dura da un quarto di secolo non si cancella in pochi trimestri. Per non aver tenuto conto di questa realtà, il “bellissimo 2019” previsto dal Presidente Conte a inizio inverso si è trasformato nella minaccia di una nuova recessione a fine estate. Per contrastarla, occorre rendersi conto che lo sviluppo zero della prima metà dell’anno dipende da tre cause diverse. La prima è la “guerra mondiale dei dazi”. Iniziata dal Presidente americano Trump contro la Cina sta rallentando l’intera crescita mondiale e colpisce in maniera sensibile, anche se indiretta, un paese esportatore come l’Italia. L’Unione europea ha contrattaccato, concludendo accordi commerciali con il Canada e con l’America Latina e solo di concerto ed entro l’Unione europea un paese come l’Italia può svolgere un’azione commerciale internazionale veramente efficace. Il che è un motivo molto forte per essere più e meglio presenti a Bruxelles. Inoltre, l’esercizio del cosiddetto “golden power” da parte del governo nei confronti della cinese Huawei implica una ripresa di iniziativa di fronte all’azione di multinazionali non europee. All’“effetto tariffe” si deve aggiungere l’“effetto Germania”: lo spettro di una recessione tedesca sta rimbalzando amplificato al di qua delle Alpi. Se la Germania dovesse davvero prendere il raffreddore, l’Italia rischia la polmonite. Per questo destano un certo sollievo le dichiarazioni sia della neopresidente della Commissione, sia della neopresidente della Bce, decise a impedire un generale scivolamento economico europeo (e quindi prima di tutto tedesco). Il loro compito comincia con il sostegno all’Italia, che il cambio di governo indubbiamente facilita. La terza, e più importante, causa della crescente debolezza italiana deriva dall’imposizione di politiche inefficaci su un’economica stanca. È arcinoto, almeno dai tempi di Roosevelt, che i lavori pubblici sono il modo più rapido per rimettere in moto questo tipo di economia, si è invece preferito distribuire subito i (pochi) fondi disponibili a ceti bisognosi. Una distribuzione necessaria, certo, ma in un altro contesto: gli effetti della crescita avrebbero dovuto precederla. Nel frattempo, con il crollo del Viadotto Morandi, si è avuta la dimostrazione palpabile che i lavori pubblici sono indispensabili per la stessa vita civile prima ancora che per l’economia. Meglio quindi assicurare che questi lavori vengano svolti con rapidità, efficienza e senza irregolarità a cominciare da quelle fiscali. E le risorse recuperate dal contrasto all’evasione fiscale sarebbero ottimamente impiegate nella redistribuzione ai più sfortunati. L’intervista a questo giornale del nuovo ministro delle Infrastrutture, Paola De Micheli, mostra che una nuova sensibilità, una nuova apertura, caratterizza l’azione del governo. E le possibili modifiche ai decreti sicurezza, con una linea più realista nella gestione dei flussi migratori, indicano che questa sensibilità non è limitata al solo campo economico. Ce la faremo a ribaltare i risultati negativi del “primo tempo economico” di questa legislatura? Non è certo impossibile: nell’economia, come nel calcio, è relativamente frequente che i risultati di una partita vengano capovolti quando tutto sembra ormai deciso. Le squadre torinesi di Serie A lo hanno dimostrato in queste settimane. Perché non potrebbe provarci anche l’economia italiana?
Abbiamo un governo e abbiamo un programma di governo in 29 punti (per far 30 ci voleva quello, presente nelle prime bozze circolate, su Roma che doveva diventare “più bella e più superba che pria”, per dirla alla Petrolini). C’è un po’ di tutto, ma sarebbe ingeneroso farlo notare: se fosse mancato qualcosa si sarebbe accusato il governo di palesi omissioni. Inoltre si tratta di un programma che ha l’ambizione di essere pluriennale, per cui deve contenere tante cose necessariamente. Il rischio è però quello di non chiarire quali siano le priorità, le cose fondamentali su cui sarà speso il capitale politico e che caratterizzeranno la strategia complessiva del governo. Il programma appare come una somma di iniziative e idee più che un insieme derivato da principi strategici generali condivisi. Ma forse questo era inevitabile vista la natura, ancora una volta, di coalizione del governo giallorosso. Nel seguito mi concentro soprattutto sulla politica dei conti pubblici, quella per cui decisioni imminenti devono essere prese, visti gli impegni collegati al ciclo di bilancio per il 2020. In quest’ambito, due sono i punti che caratterizzano il programma di governo. Primo, l’intenzione di adottare politiche fiscali “espansive”, seppur “senza mettere a rischio l’equilibrio di finanza pubblica”. Secondo, quello di “promuovere le modifiche necessarie a superare l’eccessiva rigidità dei vincoli europei, che rendono le attuali politiche di bilancio pubblico orientate prevalentemente alla stabilità e meno alla crescita ”. Insomma, quello che il nuovo governo intenderebbe fare è chiaro: più deficit pubblico. Due commenti e una domanda. Primo commento: l’approccio macroeconomico giallorosso non è molto diverso da quello del governo gialloverde. E’ un approccio figlio del convincimento che l’Italia possa crescere solo se fa più deficit pubblico. Non c’è da stupirsi: lo stesso Renzi aveva proposto, prima delle elezioni, di portare il deficit al 2,9 per cento del Pil per cinque anni. La sostituzione del nero col rosso non ha quindi cambiato molto. Secondo commento: per fare più deficit, quello che conta, secondo il governo, è l’assenso della Commissione europea. Se questa acconsente, non ci saranno problemi: i mercati finanziari si adegueranno. Anche qui, restiamo in linea con la linea di pensiero del governo precedente. Arriviamo alla domanda: che succede se l’Europa dice di no? Alla prova dei fatti il governo precedente si era adeguato alle richieste della Commissione pur di evitare una procedura di deficit eccessivo. Salvini aveva detto che con lui solo al governo questo sarebbe cambiato. Basta cedimenti, si sarebbe andati allo scontro. L’approccio meno antagonizzante del governo Conte bis (segnalato chiaramente dalla nomina di Gualtieri al Mef e dalla proposta di Gentiloni come Commissario, forse destinato all’Economia e alla Vice Presidenza) e l’uscita dal governo della Lega renderà più morbida la Commissione? Questa è la vera scommessa su cui si basa il programma di governo, una scommessa che, si potrebbe sostenere, ha maggiore possibilità di avere successo nel contesto di un’economia europea in forte rallentamento. Difficile dire come finirà. Credo ci sia la volontà di modificare le regole fiscali europee che sono da tutti considerate troppo complesse. Ma servirà tempo e non è detto che le regole diventino molto più elastiche. Ricordo anche che le regole attuali richiedono, a un paese come l’Italia, una riduzione del deficit strutturale e quindi di prendere misure discrezionali restrittive. Passare a regole che consentano non solo di mantenere il deficit invariato, ma anche di introdurre misure discrezionali espansive non è cosa da poco. Certo, la paura di fare il gioco di Salvini potrebbe ammorbidire alcuni paesi chiave, come la Germania. Ma ricordiamoci che il governo tedesco deve anche essere preoccupato dei propri sovranisti: essere troppo morbidi con l’Italia potrebbe avere pericolose conseguenze interne. Due ultime considerazioni. La prima su quello che appare il problema più pressante, quello della legge di bilancio per il 2020, il primo test di quanto il governo vorrà e potrà spingere politiche espansive. Il programma dice che l’Iva non sarà aumentata e che ci saranno sostegni alle famiglie e ai disabili, nonché maggiori spese per l’emergenza abitativa, gli investimenti privati, la pubblica istruzione, la ricerca, il welfare. Il taglio del cuneo fiscale, pur presente nel programma, non è elencato come priorità per il 2020. Ma anche senza questo occorreranno coperture rilevanti. Evitare l’aumento dell’Iva richiede 15 miliardi. Misure di una qualche significatività per tutti gli altri settori elencati richiederebbero qualcosa nell’ordine di almeno 5-10 miliardi. Senza coperture, scaricare sul deficit 20-25 miliardi, porterebbe quest’ultimo oltre il 3 per cento del Pil dal 2 per cento di quest’anno. Difficile, direi impossibile, che la Commissione accetti un aumento di questo genere. Occorrerà quindi trovare coperture e i generici riferimenti alla spending review e alle spese fiscali contenute nel programma di governo dovranno trasformarsi in atti concreti. Seconda e ultima considerazione. Visti i vincoli che comunque esisteranno sui conti pubblici italiani, la vera sfida che il governo deve superare per riavviare su basi stabili il processo di crescita sarà l’introduzione di riforme strutturali che portino a più investimenti, produttività e occupazione. In proposito, ci sono cose importanti nel programma: riduzione della burocrazia, giustizia civile più veloce, lotta all’evasione, una credibile riduzione della pressione fiscale (che, però, secondo me non dovrebbe avvenire in deficit per essere credibile, ma finanziata con risparmi di spesa) e così via. Ma la questione è la priorità che sarà data in pratica a queste riforme rispetto a misure assistenziali che curano i sintomi dei problemi piuttosto che rimuoverne le cause. Staremo a vedere.
Come in tutti i manicomi c’è una logica in questa follia di alleati nemici. Persino Luigi Di Maio nasconde le corna e la coda del diavolo quando dice «grazie mille» e sorride a Contedue che gli fa l’occhiolino come per chiudere, con un’intimità, l’ultima brutta litigata sul nome del sottosegretario alla presidenza del Consiglio, quel Riccardo Fraccaro in quota Casaleggio che ha declamato «giuro di essere fedele…» come fosse Gassman sul ronzino di Brancaleone. Di sicuro, l’intero rito del giuramento oggi parla la lingua allusiva del detestarsi volendosi bene, che è – attenzione – il più vecchio codice della politica italiana, quello appunto del compromesso storico e delle convergenze parallele, ma anche quello di D’Alema e Veltroni e di Craxi a Martelli. Perché una cosa è certa: la strizzatina d’occhio la invia il vincitore e il vinto la riceve, e mai viceversa. Insomma Conteuno non si sarebbe permesso quel colpetto d’occhio che non è solo di simpatia e di confidenza ma è la figurazione plastica di un potere personale e di un rapporto di tutela che in 15 mesi si è invertito. Ed è finito il tempo degli arrivi a piedi, in taxi o in bici. Adesso hanno la Bmw di Stato, l’autista e pure due auto di scorta se sono ministroni come Di Maio e Franceschini. Si passa alla Punto per Vincenzo Spadafora, Elena Bonetti e Giuseppe Provenzano (senza portafoglio, ma con autista). Solo una piccola Tipo per Roberto Speranza. Unica eccezione è Francesco Boccia che ha avuto una grande Bmw benché sia ministro degli Affari regionali e dunque senza portafoglio. Forse perché è venuto con tre figli e con la moglie, Nunzia De Girolamo, che quando era ministra berlusconiana non era così simpatica e sbarazzina, l’”Affàcciate Nunziata” che nella canzone napoletana “imbrillanta il cielo”. E infatti ieri a Roma l’aria aveva il tocco leggero di fine estate, dolce e lieve com’è diventato il rito del giuramento ormai derubricato da cerimonia laica della Repubblica a sbrigativa formalità del pragmatismo. Ma va detto, per compensazione, che mentre il Quirinale si alleggerisce e persino i suoi fregi diventano lineari e le sue forme sembrano addirittura razionali, la genialità italiana ha di contro inventato il populismo barocco che si aggiunge all’elenco dei nostri ossimori perché non esiste il popolo aristocratico e non sono credibili l’opulenza povera e la semplicità complessa. E invece il populismo italiano è ora un mondo fatto di nascondigli, grovigli, imbrogli. Ma non è nato tra le tende rosse e nel luccichio dei grandi lampadari del salone delle feste, antico e austero, dove il capo dello Stato ieri mattina pareva come rimpicciolito. No, il populismo barocco è l’architettura dei mille vertici, la babele delle correnti e delle trattative sui portavoce e sui vicepremier, i capidelegazione e i venti-punti- più-cinque, l’opzione leghista di ritorno, l’ultimo miglio allungato, i capigruppo e la pari dignità, le luci accese di Palazzo Chigi sino a notte fonda, i segreti di Max Bugani, un nome che pare inventato da Renzo Arbore, in rappresentanza del web con le cupole, la piattaforma Rousseau con i suoi conteggi elettronici che durano più di quelli su carta, l’abbondanza dei segni e della comunicazione, la verbosità su Facebook: Bernini, Borromini e il Cortona associati alla Casaleggio di Davide, Figlio del Padre. Non solo gli ex sans-culottes indossano tutti abito scuro e cravatta, l’uniforme dell’Ancien Régime, ma durante la cerimonia i parenti dei ministri accennano pure all’applauso come ai battesimi e ai funerali. Di Maio alza la mano per salutare la fidanzata Virginia fasciata di nero e il fratello Giuseppe che è più giovane ma è uguale a lui ed è pure (ri)vestito dallo stesso sarto. Piange la mamma di Patuanelli, ride il papà di Bonafede, saluta tutti la moglie di Franceschini che è il più esperto, imprendibile anche nell’età che è velata e svelata dal colore troppo nero dei capelli. Rosso è invece Giuseppe Provenzano – nella mia memoria non ci sono altri ministri pel di carota – di Caltanissetta, piccolo di statura, vicedirettore dello Svimez. Tutti lo descrivono studioso e secchione e chissà che i libri non siano stati i nascondigli, gli antidoti ai capelli rossi che in Sicilia non sono solo dettagli fisici in dissonanza come gli occhi celesti di Mattarella, ma anche dettagli del diavolo. Sciascia, che aveva intorno il piccolo e rosso Antonio Sellerio, nel 1979 riempì 4 pagine sui rossi: Giovanni Verga, “che scrisse Malpelo ed era rosso di capelli”, Jules Renard “che scrisse Pel di Carota era rosso”, Gesù Cristo “che nella tradizione popolare tirava al rosso”, come del resto il suo traditore: “rosso e faccia di Giuda”. Provenzano è, per risarcire il nome, ministro del Sud. Il rapporto tra i nomi e le cariche eccita i cronisti: la Sanità a Speranza, il Mare a Costa, la Giustizia a Bonafede e la Difesa a Guerini che solo in caso di guerra raddoppierebbe la erre: Guerrini. Le sette signore sono tutte scure di capelli, la più elegante è Paola Pisano all’Innovazione, la più maschia è la De Micheli che ha recitato la formula del giuramento con una passione da attrice drammatica. La più distante è la ministra prefetta che dovrà vedersele con l’eredità di Salvini: «non ti invidio» le dicono i colleghi in processione. Felice ma schivo, è oggi Roberto Gualtieri al quale i giornali di destra hanno rimproverato di aver cantato Bella Ciao e non di essere stato un allievo di Spriano e di Vacca che sono scuole di formazione più comuniste delle Frattocchie e dunque di avere per modello più Gramsci che Keynes, vale a dire i quaderni dal carcere del provinciale che, come cantava Gualtieri con Claudio Lolli, ”il giorno che arrivò in città / fresco dalla Sardegna / per fare l’università / c’aveva già lui la faccia di chi c’insegna”. E invece gli hanno rimproverato Bella ciao che è cantata oggi nelle piazze di tutto il mondo, e nella serie tv “La casa di carta” persino dai ladri. Solo dalla destra italiana è ancora confusa con Bandiera rossa e l’Internazionale, mentre è la canzone della Resistenza e del 25 aprile, non è mai stata un inno comunista, ma è il canto laico della liberazione e della concordia repubblicana. Segno su un quadernetto l’appartenenza dei ministri mentre giurano: Federico D’Inca è quota Fico, Bonafede e Costa sono quota Grillo, Pisano è quota Appendino, Fraccaro è quota Casaleggio, Patuanelli e Catalfo sono quota Di Maio, Spadafora è la quota del Pd dentro i cinquestelle, Fabiana Dadone è a metà… Nel Pd Guerini è quota Lotti, Bellanova e Bonetti sono quota Renzi, Boccia è quota Emiliano, Provenzano è quota Orlando, De Micheli è quota Zingaretti, Franceschini è quota Franceschini, Gualtieri è quota Lagarde, Speranza è quota Leu-D’Alema. E sono solo alcuni dei mille anfratti e delle mille cavità del populismo barocco, come le pieghe del baldacchino di san Pietro e della facciata di Sant’Andrea al Quirinale (“La piega” è il titolo del famoso libro di Delezue, edito da Einaudi). Poi è arrivato il momento della foto di gruppo che è la memoria di ogni festa. Mattarella ha occupato il centro geometrico e tutti si sono messi in posa da terza B. I posti erano assegnati dal cerimoniale. Quindici mesi fa la foto raccontava il giuramento degli spergiuri, oggi anche gli incendiari sono diventati pompieri. Alcuni per opportunismo, altri per vocazione, altri ancora per professione, tutti vorrebbero sedare e calmare, spegnere l’incendio Italia. E tra loro la ministra degli Interni Luciana Lamorgese, Guerini e Spadafora, Patuanelli, Contedue, Franceschini e il ministro dell’Economia Gualtieri non hanno solo il compito di impedire al fuoco di svilupparsi secondo il suo verso, di circoscriverlo e di frenarlo ma anche di camminare sui cornicioni, arrampicarsi sui tetti, spiccare un salto, sfondare una porta. I veri pompieri infatti non sono figure negative, dorotei che perdono tempo, democristiani che deresponsabilizzano e tirano a campare. Cavour era un pompiere e anche De Gasperi e Togliatti. Machiavelli era un pompiere. Moro e Ciampi avevano il coraggio e la prudenza dei pompieri. Ecco, questa volta neppure la foto di gruppo è riuscita a dare il senso di tutto in un istante. Non c’è inquietudine, è vero, e sono tutti in posa felice, ma anche l’allegria è trattenuta, come fosse malata. È la foto della quiete dopo la tempesta o è soltanto la foto del Rinvio?
Agli amici dice: «Sarà una delle esperienze più importanti della mia vita». E gli amici gli dicono: «Paolo, tu conosci bene il tedesco. E non sai quanto ti servirà». Ma certo che Gentiloni lo sa. E quasi prevedendo, con larghissimo anticipo il suo ingresso nella squadra di Ursula, durante le vecchie riunioni della Margherita ogni tanto diceva: «Devo andare via». Ma dove vai?, gli chiedevano. E lui: «A lezione di tedesco». Ora s’è avviato a Bruxelles, in uno dei posti top della commissione Ue. Ed è il pallino per la politica estera, di uno tutto Clinton o Terza Via o comunque da sempre appassionato dei grandi scenari internazionali che molti suoi colleghi non sapevano o non volevano vedere, ad averlo portato lassù. In questi giorni, quando qualcuno lo chiamava al telefono per sapere degli sviluppi della crisi, del gioco dei dem, dell’accordo con M5S, Gentiloni rispondeva parlando di Boris Jonhson, dell’Hard Brexit, degli equilibri e degli scontri tra i conservatori inglesi e di temi così. «Ma hai visto che cosa sta accadendo nelle piazze di Hong Kong?». Ecco, più appassionato alle mosse di Lavrov, ministro degli esteri di Putin, che a quelle di Grillo o magari di Di Maio, ministro degli esteri di Conte. «E il Mediterraneo?». E già con la necessaria stabilizzazione della Libia e con i discorsi, mai altamente staccati dal concreto della politica, dei trattati, degli accordi, sul ruolo dell’Europa e dell’Africa e via dicendo. E dunque, Gentiloni in questa nuova fase da player internazionale scelta per lui è un topo nel formaggio. Con Angela Merkel ha rapporti più che cordiali, quasi amicali, e di reciproca stima. Anche dopo che ha smesso di fare il premier, Frau Angela lo ha invitato e consultato a Berlino. Dicendo di lui: «Ha lo sguardo giusto». E’ mosso da una «curiosità pazzesca»: così dicono i pochi con cui sta condividendo la gioia, per il compito importantissimo che va a ricoprire. In cima alla Commissione Ursula, se ottiene come è probabile il super-portafoglio degli Affari economici. Per il quale serve la capacità mediatrice e tutto il patrimonio di rapporti che Gentiloni detiene – ieri lo hanno chiamato tutti: Frau Angela, Timmermans, Moscovici, Gualtieri e vari ministri di questo governo e di quello che ha presieduto lui, i commissari uscenti e quelli entranti, Confindustria, i sindacati e via dicendo – e da questo punto di vista si può stare sicuri. Quel che servirà, e di cui Paolo il morbido dovrà dotarsi e lo farà felpatamente, sarà un piglio assai deciso su tutte le questioni europee compresa quella della crescita necessaria dell’Italia che passa dalla lotta contro il rigorismo. Ossia l’afflato europeista di Gentiloni non dovrà fermarsi al risaputo, ma andare oltre, stupire, spiazzare: contribuendo a dare alla Ue quella spinta che in questi anni non ha avuto. Come ex premier ha uno standing alto Gentiloni. E si racconta che nella telefonata avuta ieri con Gualtieri – a cui Gentiloni ha dato una mano nell’ultima campagna elettorale per le Europee – il titolare del Mef abbia scherzato: «Paolo, io dovrò trattare con te la flessibilità per l’Italia». Intanto ha annullato l’impegno al forum di Cernobbio ma ha mantenuto quello di sabato sera: sarà al Castello di Santa Severa, per ricevere un premio per il suo impegno europeista. Celebrato ieri anche da Renzi, che gli ha fatto i complimenti per la carica Ue e Gentiloni gli ha risposto con un tweet: «Grazie Matteo». E pace fatta. Ora c’è il paradosso del meno entusiasta per l’accordo grillo-dem che diventa la punta di diamante di questo esecutivo in Ue e il volto dell’Italia che a Bruxelles sono pronti a considerare un’amica ritrovata. «Amo l’Italia e l’Europa e sono orgoglioso dell’incarico ricevuto. Ora al lavoro per una stagione migliore». Questo il tweet auto-motivazionale di Paolo. E chi avrebbe mai detto che il Pd, non molto in salute in Italia, si sarebbe preso – almeno sulla carta – anche l’Europa.
ROMA Agli amici dice: «Sarà una delle esperienze più importanti della mia vita». E gli amici gli dicono: «Paolo, tu conosci bene il tedesco. E non sai quanto ti servirà». Ma certo che Gentiloni lo sa. E quasi prevedendo, con larghissimo anticipo il suo ingresso nella squadra di Ursula, durante le vecchie riunioni della Margherita ogni tanto diceva: «Devo andare via». Ma dove vai?, gli chiedevano. E lui: «A lezione di tedesco». Ora s’è avviato a Bruxelles, in uno dei posti top della commissione Ue. Ed è il pallino per la politica estera, di uno tutto Clinton o Terza Via o comunque da sempre appassionato dei grandi scenari internazionali che molti suoi colleghi non sapevano o non volevano vedere, ad averlo portato lassù. In questi giorni, quando qualcuno lo chiamava al telefono per sapere degli sviluppi della crisi, del gioco dei dem, dell’accordo con M5S, Gentiloni rispondeva parlando di Boris Jonhson, dell’Hard Brexit, degli equilibri e degli scontri tra i conservatori inglesi e di temi così. «Ma hai visto che cosa sta accadendo nelle piazze di Hong Kong?». Ecco, più appassionato alle mosse di Lavrov, ministro degli esteri di Putin, che a quelle di Grillo o magari di Di Maio, ministro degli esteri di Conte. «E il Mediterraneo?». E già con la necessaria stabilizzazione della Libia e con i discorsi, mai altamente staccati dal concreto della politica, dei trattati, degli accordi, sul ruolo dell’Europa e dell’Africa e via dicendo. E dunque, Gentiloni in questa nuova fase da player internazionale scelta per lui è un topo nel formaggio. Con Angela Merkel ha rapporti più che cordiali, quasi amicali, e di reciproca stima. Anche dopo che ha smesso di fare il premier, Frau Angela lo ha invitato e consultato a Berlino. Dicendo di lui: «Ha lo sguardo giusto». E’ mosso da una «curiosità pazzesca»: così dicono i pochi con cui sta condividendo la gioia, per il compito importantissimo che va a ricoprire. In cima alla Commissione Ursula, se ottiene come è probabile il super-portafoglio degli Affari economici. Per il quale serve la capacità mediatrice e tutto il patrimonio di rapporti che Gentiloni detiene – ieri lo hanno chiamato tutti: Frau Angela, Timmermans, Moscovici, Gualtieri e vari ministri di questo governo e di quello che ha presieduto lui, i commissari uscenti e quelli entranti, Confindustria, i sindacati e via dicendo – e da questo punto di vista si può stare sicuri. Quel che servirà, e di cui Paolo il morbido dovrà dotarsi e lo farà felpatamente, sarà un piglio assai deciso su tutte le questioni europee compresa quella della crescita necessaria dell’Italia che passa dalla lotta contro il rigorismo. Ossia l’afflato europeista di Gentiloni non dovrà fermarsi al risaputo, ma andare oltre, stupire, spiazzare: contribuendo a dare alla Ue quella spinta che in questi anni non ha avuto. Come ex premier ha uno standing alto Gentiloni. E si racconta che nella telefonata avuta ieri con Gualtieri – a cui Gentiloni ha dato una mano nell’ultima campagna elettorale per le Europee – il titolare del Mef abbia scherzato: «Paolo, io dovrò trattare con te la flessibilità per l’Italia». Intanto ha annullato l’impegno al forum di Cernobbio ma ha mantenuto quello di sabato sera: sarà al Castello di Santa Severa, per ricevere un premio per il suo impegno europeista. Celebrato ieri anche da Renzi, che gli ha fatto i complimenti per la carica Ue e Gentiloni gli ha risposto con un tweet: «Grazie Matteo». E pace fatta. Ora c’è il paradosso del meno entusiasta per l’accordo grillo-dem che diventa la punta di diamante di questo esecutivo in Ue e il volto dell’Italia che a Bruxelles sono pronti a considerare un’amica ritrovata. «Amo l’Italia e l’Europa e sono orgoglioso dell’incarico ricevuto. Ora al lavoro per una stagione migliore». Questo il tweet auto-motivazionale di Paolo. E chi avrebbe mai detto che il Pd, non molto in salute in Italia, si sarebbe preso – almeno sulla carta – anche l’Europa.
Una cosa l’abbiamo già capita: Christine Lagarde non è un altro Mario Draghi, manca di quella capacità inpnotica che è stata la vera arma non convenzionale usata dal presidente della Bce uscente. L’attuale direttore del Fondo monetario internazionale è intervenuta ieri a Bruxelles davanti alla commissione Affari economici del Parlamento europeo che ha dato il primo via libera alla sua nomina al vertice della Banca centrale europea. Due frasi somigliano già alle prime due gaffe. I giornalisti le chiedono un commento sulla nomina di Roberto Gualtieri a ministro dell’Economia, in quel momento non ufficiale. Risposta: “Un bene per l’Italia e per l’Europa”. Draghi è sempre stato molto attento a non prendere mai posizioni così esplicite sulla politica interna dei Paesi membri, soprattutto a non esternare preferenze sulle persone. La seconda gaffe è comprensibile soltanto agli addetti ai lavori, ma è più seria. “Ero a capo del Fondo monetario quando Draghi disse ‘we will do whatever it takes’. Spero di non dover mai dire una cosa simile perché significherebbe che gli altri policymaker non stanno facendo quello che dovrebbero”. Il riferimeto è alla famosa dichiarazione di Draghi del 26 luglio 2012, quando il presidente della Bce dichiara di essere pronto a “fare tutto il necessario” per fermare la crisi di credibilità dell’euro. Un impegno che si tradurrà, pochi mesi dopo, nel primo schema di salvataggio di Stati a rischio default noto come Omt (mai usato) e dal 2015 nel Quantitative easing, cioè l’acquisto diretto di titoli di Stato da parte della Bce. La Lagarde, però, dimostra di non avere ancora la testa da banchiere centrale e da economista (è un avvocato): non furono le parole di Draghi a fermare il collasso dell’euro, ma il tono con cui furono state pronunciate, la determinazione che trasmettevano e la capacità che il presidente della Bce aveva già allora maturato di influenzare le aspettative dei mercati. “Whate – ver it takes” non e’ una formula magica e non funzionerebbe allo stesso modo in bocca ad altri diversi da Draghi, privi della stessa capacità di cambiare il clima e condizionare le attese. È un talento che non si trasmette con il passaggio di consegne al vertice di Francoforte. La Lagarde trasmette al mercato un messaggio pericoloso, di scarsa determinazione: dire che speri di non usare un’arma potente equivale a ridurre la possibilità che questa venga usata davvero. Promette di insistere con le politiche monetarie espansive (tassi bassi, acquisti di titoli ecc.) ma anche di sottoporle però a una costante “ana – lisi costi-benefici” c on d o tt a non soltanto dalla Bce ma anche da “altre banche centrali nel mondo”. Un modo per rassicurare gli Usa di Donald Trump che Francoforte non darà troppo fastidio al dollaro, ma anche un ulteriore segnale di prudenza. Resta poi un mistero cosa significhi che la Bce deve considerare “la lotta al cambiamento c im at ic o” al centro della propria missione: il potere autonomo delle banche centrali, che non rispondono agli elettori, si giustifica soltanto perché il loro mandato è molto limitato (nel caso europeo il controllo d e ll ’inflazione e la difesa dell’euro). Se una banca centrale inizia a occuparsi anche della temperatura globale, diventa più simile a un governo, e i governi vanno eletti. La Lagarde ha evocato pure i “safe asset”europei, il modo in cui si chiama oggi il progetto di un debito pubblico comune un tempo noto come Eurobond, ed è stata molto esplicita anche nel chiedere ai Paesi con i conti piu’ solidi, come Germania e Olanda, di spendere di più in infrastrutture, visto che “hanno capacità fiscale di sponibile”. E dovrebbero farlo non soltanto per allontanare i timori di recessione globale, ma anche perché tutte le istituzioni europee devono “rispondere alla minaccia del populismo”. Anche questa è una invasione nel campo della politica con uno stile molto diverso da quello prudente di Draghi. Forse è solo inesperienza – i discorsi da direttore del Fmi non hanno lo stesso peso di quelli del presidente della Bce – o forse dobbiamo preparaci ad avere a Francoforte un banchiere centrale che non è piu’capace di muovere tassi di cambio e mercati obbligazionari soltanto con il giusto tono della voce e qualche pausa enfatica.
Le magnifiche purghe contro Salvini e Johnson illuminano la storia di due prepotenti puniti e di due crisi parallele, sì, ma molto diverse.
Il Foglio è sempre di più un libero giornale contendibile. E per questo oggi vale di più di quando cinque anni fa l’ho lasciato. Cani e porci (io più porco che cane) dicono quel che vogliono senza remore, e questo è bello perché avviene sotto la bacchetta di un formidabile animatore e direttore d’orchestra. Per l’ultima o penultima volta, chissà, vorrei ripetere il senso che ho attribuito, a forza di paradossi e ironie non sempre autoesplicativi, alla formidabile Krisis in cui siamo incappati sulla spiaggia del Papeete (mica tutti possono vedere le crisi “Dallo Steinhof”, come il professor Cacciari). Il punto di partenza è che in una democrazia parlamentare, integrata per la bisogna dal clic rousseauiano, non si dà a un dj energumeno senza camicia il diritto di fissare la data delle nuove elezioni, a brevissimo, per avere i pieni poteri. Il secondo punto è che le cose cambiano, e se ieri andare con i 5 stelle voleva dire piegarsi alla loro trionfante e pimpante sottocultura, oggi vuol dire raccogliere le spoglie del loro fallimento e rabberciare gli affari pubblici con un governo del Rinnegamento, un BisConte pasticciato ma appena decente, un governo senza Toninelli (e spiace) e senza punti di contratto come quelli meravigliosamente elencati ieri da Cerasa qui (pazienza per l’attrattività sempre maggiore di Roma per i visitatori, scemenza più, scemenza meno). Avrei preferito più tatto e distanza, un appoggio esterno, ma vivaddio anche il governo strategico ha i suoi diritti, e i politici si aspettano sempre che le loro ambizioni siano compensate da posti di comando (non me ne adonto né stupisco, anch’io vorrei fare il capo della polizia). Il terzo punto è che le élite devono comandare e le elezioni si tengono alla scadenza costituzionale o, quando ci sia un accordo ampio e l’as – senza di una maggioranza di ricambio, con tempi anticipati, ma non in esecuzione di un ricatto di spiaggia. Ed eccoci a Londra, crisi parallela ma diversa. Invece di un clown triste e senza idee se non quelle imprestategli da un Bannon di passaggio (anche per il caos ci vogliono fior di ingegneri), a Londra regna un prince clown, un fiorellino delle élite. Boris, il detto fiorellino, ha subito incassato una sconfitta dal Parlamento, che voleva imbrigliare e in pratica sciogliere, per realizzare la Brexit senza accordo, un taglio netto che a molti sembra necessario dopo troppa pazienza. Boris naturalmente ha lavorato di fino con le regole, coinvolgendo la Regina a Balmoral con un perfetto inchino, e guardandosi bene dallo spogliarsi per chiedere dalla spiaggia di Brighton ai parlamentari di alzare il culo e votare lo scioglimento (gli avrebbero tagliato la testa seduta stante). Ha dunque scelto di cercare di imporre la data di un voto ravvicinato, e forse gli riuscirà, per due motivi: perché nel sistema maggioritario (winner takes all) si usa così, sebbene con remore di cui tra poco, e perché vuole portare a un esito trumpiano sofisticato la divisione radicale tra popolo e parlamento, tra popolo e partiti, tra popolo e élite. Ieri al question time di Westminster, Johnson batteva con foga sempre lo stesso chiodo: imporre al governo di escludere l’uscita senza accordo, no deal, vuol dire imporgli di arrendersi di fronte all’Unione europea, è un surrender bill contro il quale il popolo sarà scatenato in difesa della propria volontà referendaria. Lasciamo stare il fatto che non c’è alcuna guerra con l’Europa nazificata, e il churchillismo di Boris non è approvato nemmeno dal simpatico e massiccio nipote di Churchill, Nicholas Soames: la metafora regge, e il trumpismo johnsoniano potrebbe allegramente trionfare anche se il popolo non ha mai votato per un’uscita senza accordo e le conseguenze, malgrado gli stratagemmi di Dominic Cummings, il serpente di Westminster, sarebbero sopportate sopra tutto da esso popolo.
Sarebbe un brutto giorno, ma è come per il collegio elettorale, ideato per combattere gli eccessi plebiscitari negli Stati Uniti, che per paradosso è servito a Trump e ha dannato la sua avversaria. Tutto il disastro politico e istituzionale, che altri possono giudicare una liberazione da pastoie parlamentari e un premio alla volontà generale, seguirebbe il filo di una regola, una volta che Corbyn (perché ora è nei suoi poteri impedirlo) decidesse di dare il via alle elezioni prima di avere la certezza che il “no deal” non si farà. Ecco. C’è un contratto, una forma della politica, che va rispettato. Quando Berlusconi aveva ottimisticamente e soavemente vinto nel maggioritario, per nascondere il ribaltone fu tirata in ballo a sproposito la centralità del Parlamento. Quando uno con il 17 per cento vuole dettare legge con modi bruschi e spicci al resto del Parlamento, nisba. Di qui non nasce una nuova prospettiva strategica, una nuova alleanza epocale, come sostengono ideologi e papere, nasce semplicemente un rimedio, che è l’antico nome delle medicine. Se poi nel frattempo, passata la febbre, si combina qualcosa di buono, meglio. Tutto questo è stato importante non per soddisfare le voglie dei liberali per Salvini, non per arrendersi (surrender bill) al vaffanculo di Grillo, non per ottenere la migliore lista dei ministri possibile e il migliore pres. del con.: è stato necessario per ragioni di pedagogia democratica. Anche un paese analfabetizzato dai dj è bene che ogni tanto si prenda una lezione politica. Non è poco.
Al terzo tentativo, dopo gli accordi mancati del 2013 e del 2018, è infine nato un governo basato sull’intesa tra Movimento 5 Stelle e Partito democratico. I primi due fallirono anche per lo squilibrio di forze e aspettative tra i partiti: nel 2013 era maggioranza il Pd e un M5S in forte ascesa non accettò di fare da stampella in Parlamento a Pier Luigi Bersani: viceversa, nel 2018 i dem umiliati dalle urne si sfilarono dall’intesa per volere dello sconfitto Matteo Renzi. Stavolta, a favorire l’incontro è stata proprio la equa condizione di debolezza, con i grillini prosciugati da un anno e mezzo di subordinazione all’agenda di Matteo Salvini e un Pd in recupero ma non ancora attrezzato a competere per un successo elettorale. Il matrimonio è combinato, addirittura forzato per il bizzoso Luigi Di Maio, ma con un evidente tornaconto comune: fermare la scalata solitaria di Salvini al governo del Paese.
L’oggettivo opportunismo della scelta non cancella un merito evidente a quella maggioranza di cittadini che assisteva con preoccupazione, spesso con terrore, alla torsione orbaniana e putiniana che Salvini stava già imprimendo alle istituzioni, con dosi crescenti di un veleno sovranista che ancora più avrebbe intossicato la Repubblica se al leader della Lega fosse stata data l’opportunità di conquistare in sequenza Parlamento, Palazzo Chigi e Quirinale. L’intesa Pd-M5S ha dunque una ragione. Ma per ora non ha un senso. E non sarà facile trovarlo strada facendo. Lo dimostra anche il travaglio che ha accompagnato la nascita del governo e ha accidentato persino l’ultimo miglio della trattativa ritardando il giuramento previsto per ieri pomeriggio. Non c’è una visione né una formula politica, anche perché non sono chiari neanche gli elementi di questa combinazione in laboratorio. Cosa è oggi il Movimento 5 Stelle? Il Movimento benecomunista di Fico o quello destrorso e populista di Di Maio? La forza che propugna il progressismo dal basso o il vedovo inconsolabile dell’alleanza con la Lega? Sia chiaro, una risposta non c’è. Come non c’è per Giuseppe Conte, implacabile fustigatore del salvinismo dopo esserne stato impassibile notaio e persino scudo umano sulla vicenda Diciotti. Il grillismo resta impasto ambiguo, un frullatore nel quale la cittadinanza attiva che invoca acqua pubblica e difesa dell’ambiente convive con un rancido peronismo e con l’opaca costruzione di scatole cinesi che permette a un signore mai eletto da nessuno nemmeno a casa sua, cioè Davide Casaleggio, di controllare il primo partito in Parlamento e torcere la Costituzione fino al punto di irridere Sergio Mattarella, invitandolo a informarsi sul blog dell’esito della votazione su Rousseau. Un Movimento a due facce, come minimo, con il particolare non secondario che fin qui a comandare è sempre stata la seconda, quella di Casaleggio. Ma anche il Pd ha i suoi problemi di identità. Può apparire il baluardo laburista che Nicola Zingaretti ha in mente di forgiare. Ma anche un partito informe, tenuto insieme da convenienze contingenti, esposto alle tentazioni scissioniste di Renzi e ai rigurgiti di quel populismo di Palazzo che ne ha funestato l’esistenza negli ultimi anni. Cosa possa produrre l’unione di questi due elementi è difficile prevedere. Si tratta di un esperimento quasi al buio, certo non illuminato dai 26 punti del programma, più agili del contratto gialloverde ma di nuovo ottenuti per giustapposizione delle rispettive proposte e non per fusione orientata a un obiettivo comune. Il governo giallo-rosso può avere un solo senso. Pensarsi come esecutivo di ricostruzione. Ricostruzione della grammatica politica, delle regole della convivenza civile e di un buon governo sottratto alle derive della propaganda in servizio permanente. Se saprà farlo, anche solo parzialmente, può rappresentare la base di una riscossa nazionale. Altrimenti fallirà anche nel suo obiettivo basico, fermare l’onda sovranista, che si ripresenterà ancora più travolgente di prima. Questo patto resta, per le modalità che lo hanno prodotto, anomalo. Di Maio ministro degli Esteri è lo stesso che pochi mesi fa posava in foto con l’ala più eversiva e cripto-fascista dei gilet gialli e che dal palco del Quirinale, appena pochi giorni fa, ha rivendicato tutto quanto prodotto in 14 mesi di governo con Salvini. Lo stesso Salvini che oggi, giocoforza, il M5S deve arginare insieme al Pd. Come tutti i vaccini, anche quello giallo-rosso contiene in sé il virus da combattere. Se il virus è in dosi eccessive, prima o poi la malattia tornerà a esplodere.
Carrie d’acciaio. Carrie la combattente. Carrie cattolica. Carrie che si appella all’amore. Carrie «non posso andare dal parrucchiere». Carrie impotente, burattino di Pechino. E ora: Carrie che concede. Chi è davvero Carrie Lam? Che cosa può (o non può) fare la Chief executive di Hong Kong? Ieri i cittadini dell’ex colonia inglese, dopo quasi tre mesi di proteste oceaniche e sempre più violente contro la legge sull’estradizione e per la democrazia, hanno visto una nuova versione della leader che li governa. Carrie Lam che si piega e finalmente prova a mediare tra le loro richieste e Pechino. «Il governo ritirerà la legge per calmare le preoccupazioni dei cittadini», ha detto la Chief executive, 62 anni, in un video registrato trasmesso alle 18 in tv. «Ritirerà»: seduta alla scrivania, giacca blu spento su maglietta rosa, la solida algida compostezza resa ancora più meccanica dalla lettura in video, Lam ha pronunciato la parola che Hong Kong voleva sentire. Ha concesso al movimento la prima vittoria, cancellando una norma che aveva prima difeso e poi solo sospeso. Non solo. Nel tentativo più deciso visto finora di aprire un dialogo, ha anche annunciato la creazione di una commissione di esperti che indaghi sui problemi della città. Bella giravolta per chi una settimana fa, dopo essersi autoaccusata del caos e rammaricata di non poter più rifare la piega, confessava la sua impotenza di fronte al governo cinese. Che cosa sia successo tra quello sfogo a porte chiuse, che qualcuno ha registrato e servito a Reuters, e la concessione di ieri è materia di speculazione. Qualcuno ipotizza che proprio l’audio rubato abbia spinto Pechino a concedere qualcosa, per mostrare che l’autonomia di Hong Kong ancora esiste. Qualcuno azzarda che sia stata Lam stessa a architettare la fuga di notizie per crearsi un margine. Solo che ritrattare oggi, dopo 13 settimane di scontri, manganellate e ferite, non è come averlo fatto a giugno, dopo le prime marce pacifiche. Inoltre quattro delle richieste in cui si è cristallizzato il dissenso restano tutt’ora dribblate o respinte: l’inchiesta indipendente sulla polizia, l’amnistia per gli arrestati, e ovviamente la piena democrazia. «Tutte e 5, nessuna esclusa», è lo slogan della piazza, ieri ribadito da due portavoce mascherati: «Il ritiro della legge è come un cerotto su carne in putrefazione». «Troppo poco e troppo tardi», dicono i politici del fronte democratico, a cui non conviene abbassare la tensione prima delle elezioni locali di novembre. Vero: il messaggio della Chief executive non è per gli irriducibili, bensì per la maggioranza dei cittadini comuni, che potrebbero essere stanchi del caos e considerare raggiunto un risultato. Va letto insieme alle parole del governo cinese, che martedì ha distinto tra «pacifici» e «criminali», sperando con bastone e carota di smorzare la protesta. Solo che a giudicare dai tassi di (dis)approvazione nei confronti di Lam, record storico negativo, neppure i “pacifici” sembrano molto disposti a crederle. Forse il suo compito era impossibile, mediare tra una Hong Kong ogni giorno più inquieta e una Cina sempre più debordante. Fatto sta che questa funzionaria, scelta da Pechino per fedeltà e dedizione al lavoro, è risultata al contempo irrilevante e insensibile. L’ostilità nei suoi confronti è uno dei collanti del movimento: «Ogni volta che parla siamo più arrabbiati», diceva una signora in marcia. Molti sostengono che il governo cinese aspetti solo di non apparire debole per farla fuori. Ora però le concede un tentativo di «sanare le divisioni», come lei stessa aveva promesso dopo la nomina. Si vedrà nei prossimi giorni se la partecipazione alle proteste diminuirà. Carrie la riconciliatrice: al momento pare poco credibile.