Che enorme differenza tra lo spaesato Giuseppe Conte di 14 mesi fa, quasi incredulo di trovarsi al Quirinale, e l’uomo politico sicuro di sé che intorno alle 11 si è presentato davanti alle telecamere dopo aver ricevuto l’incarico di governo. L’ex “Avvocato del popolo” si propone oggi come uomo di Stato senza etichette, la cui principale cura consisteva e consisterà nel perseguire il bene comune. Tale è la preoccupazione di mostrarsi ecumenico, che qualcuno potrebbe scambiarlo per un personaggio super partes, per una figura di garanzia diretta emanazione del capo dello Stato. Ma non è affatto così. Sul Colle, interpellati a riguardo, escludono che Conte abbia ricevuto ieri mattina il mandato di mettere su un governo del presidente o qualcosa di vagamente simile. Dovrà formare – confermano – un governo tutto politico, sorretto da M5S e Pd. Lo stesso presidente incaricato è stato scelto su chiara indicazione del suo partito di appartenenza, che sono i Cinque Stelle. Da dove potrebbe nascere allora l’equivoco del Conte “super partes”? Un po’ dalla cura con cui l’Incaricato riecheggia temi cari a Sergio Mattarella, incominciando dal rispetto delle regole e della Costituzione; un altro po’ discende dalla propaganda di Matteo Salvini, il quale rimescola le carte sostenendo che il futuro governo sarà una specie di Monti-bis (quello sì che fu davvero un governo del presidente). «Niente di più sbagliato», assicura chi al Quirinale è di casa: il grado di coinvolgimento presidenziale sarà limitato alla leale collaborazione che sempre deve esistere tra le alte cariche della Repubblica. Se potrà dare una mano al premier nell’interesse generale, Mattarella non si tirerà indietro, come del resto aveva fatto pure con il governo giallo-verde. Ed è chiaro che, quando si tratterà di scegliere i ministri (quattro in particolare: Economia, Esteri, Interno e Difesa), Mattarella non vorrà limitarsi a mettere la firma sotto i decreti di nomina. Corre voce ad esempio che per il Viminale vedrebbe meglio un tecnico della materia rispetto a figure politiche di primo piano. Però eserciterebbe questa sua vigilanza senza elevarsi a “Lord protettore” del governo. Insomma, il paragone col governo Monti viene giudicato del tutto fuori luogo. Il “timing” della crisi Filtra poco di quanto si sono confidati Mattarella e Conte nell’ora e mezza di colloquio. Si sa che il premier incaricato è consapevole delle difficoltà, ma nutre fiducia in se stesso. E che informerà il Quirinale passo passo. Oggi consulterà tutti i partiti, come richiede il galateo non scritto della Repubblica. Tra martedì e mercoledì potrebbe tornare sul Colle per sciogliere la riserva scaramantica con cui ha accettato l’incarico, e giovedì dovrebbe ripresentarsi con la nuova squadra ministeriale per la cerimonia del giuramento. Seguirebbe dibattito in Parlamento venerdì e sabato, iniziando dalla Camera. Entro la prossima settimana il nuovo governo comincerà a rimboccarsi le maniche, sempre che qualcosa non vada storto. Due le preoccupazioni.
Il senso del colloquio che c’è stato ieri al Quirinale – oltre ai passaggi più formali e ad alcuni sostanziali (come i numeri al Senato e i 4 ministeri che Mattarella considera cruciali) – è che l’incarico appena conferito ha una natura politica. Che, quindi, il capo dello Stato considera il Conte bis – se andrà in porto – come un Governo a tutti gli effetti politico e non istituzionale e certamente non una riedizione dell’Esecutivo Monti come dice Salvini. Una sottolineatura superflua vista la genesi di questo tentativo, con una crisi nata a sorpresa per lo strappo del “Capitano”, per i due “forni” che si sono aperti, con quello della Lega che poi è stato chiuso e infine l’approdo sull’accordo tra Pd e 5 Stelle di indicare Conte per la premiership. In sostanza, in nessun passaggio c’è stata – o si è resa necessaria – la copertura istituzionale del capo dello Stato e tantomeno Mattarella ritiene che debba esserci in futuro. In poche parole, proprio la natura dell’intesa ridurrà al minimo il suo intervento sulle scelte. Questo non vuol dire che ci sia una distanza critica del Colle su quello che fu l’Esecutivo Monti ma le differenze sono sotto gli occhi di tutti. A cominciare dalla maggioranza che non nasce sotto la spinta di un’emergenza finanziaria ma per il tentativo di far proseguire la legislatura e soprattutto con un capo del Governo che è stato indicato dal partito di maggioranza relativa e accettato dal Pd, non scelto dal presidente della Repubblica. Ma al di là di quello che è stato il senso dell’incarico conferito, l’attenzione di Mattarella resta sia sul fronte dei numeri della maggioranza in Senato (che sulla carta ci sono ma che i giochi parlamentari rendono fluidi) sia in vista dell’esercizio delle sue prerogative in particolare nella nomina di quattro ministri, Economia, Esteri, Interni e Difesa. Questioni di cui è ben consapevole Conte che però si trova davanti soprattutto un ostacolo: il nodo dei vicepremier. E qui la questione della natura politica del Governo slitta verso una questione ben più cruciale che pongono i Democratici: il ruolo di parte di Conte. Per loro lo schema che c’è stato fin qui di un premier con due vice, evoca una sorta di terzietà del presidente del Consiglio che verrebbe preservata se una casella fosse affidata al Pd e una ai grillini. Così lui manterrebbe una posizione di garante che gli consentirebbe di ritagliarsi un’immagine più istituzionale e l’allure quasi da capo dello Stato che dirime conflitti tra partiti e parla di umanesimo e di pacificazione. Sarebbe come aprirgli un’autostrada in termini di consenso che lo renderebbe molto competitivo nella prossima battaglia elettorale. Non è un caso che i grillini abbiano scommesso su di lui per risalire la china. E dunque per il Pd deve essere chiaro che il premier deve mettere la faccia sulle scelte dei 5 Stelle e indossare la giacca di partito. Ecco perché è importante smontare quello schema a tre e ripristinare una diarchia in cui se il premier è dei 5 Stelle, c’è solo un vice del Pd. Una scelta simbolica, che serve a chiarire il ruolo di Conte e a evitare al Pd di allevare, in casa, un temibile avversario. Come è stato per Salvini.
Un conto di 100 miliardi di dollari alle Big Pharma per la crisi degli oppiodi. La stima è prudenziale secondo Patrick Trucchio, di Berenberg Capital Markets. Altri analisti si spingono, nello scenario peggiore, fino a 150 miliardi di dollari. Somma che comprende le sanzioni possibili per tutte le duemila cause avviate da 45 stati e migliaia di municipalità contro quella che negli Stati Uniti viene ormai definita un’epidemia. Un’epidemia, sostengono i procuratori, causata dalle pratiche di marketing aggressivo attuate dalle società farmaceutiche che negli ultimi anni hanno spinto i medici a prescrivere, anche quando non ce ne era bisogno, i farmaci a base di oppioidi, che oltre ad alleviare il dolore creano dipendenza, alla stregua degli stupefacenti venduti per strada come eroina e cocaina, fino alla morte. L’epidemia degli oppiodi secondo i dati del governo, ha causato la morte di 400mila persone negli ultimi vent’anni. Più dei caduti americani nella Seconda guerra mondiale. Il 30% delle morti è fatta risalire all’abuso dei farmaci a base di oppiodi. La restante percentuale dipende dal Fentanyl, le pasticche da sballo prodotte da piccoli laboratori illegali alla “Breaking bad”, in Cina soprattutto, che hanno invaso gli Stati Uniti. Il costo della crisi degli oppiodi per l’economia americana è di 78,5 miliardi l’anno calcolando il peso sul sistema sanitario, i costi sociali, la perdità di produttività e i costi per il sistema giudiziario. Il calcolo viene dall’Agenzia federale per il controllo e la prevenzione delle malattie (Cdc) che definisce l’abuso di farmaci a base di oppiodi come la nuova eroina. Oltre ai numeri spaventosi delle vittime si calcola che almeno 2 milioni di americani siano dipendenti da questi medicinali. Le società farmaceutiche hanno solo cominciato a pagare il conto che rischia dunque di essere molto più pesante per il settore. Johnson & Johnson lunedì è stata condannata da un tribunale dell’Oklahoma con una sanzione di 572 milioni. Il procuratore chiedeva 17 miliardi di danni per risarcire lo stato e i familiari delle vittime. La sentenza, al di là dell’ammenda, è importante perché è la prima e apre la strada alle altre che verranno nei duemila procedimenti già avviati che coinvolgono 22 produttori e distributori americani di farmaci a base di oppiodi. Purdue Farma, azienda che produce l’OxiContin, tra i farmaci sotto accusa per essere al centro delle morti, ha offerto una somma tra 10 e 12 miliardi per chiudere tutti i contenziosi prima del processo. Purdue Farma è controllata dalla famiglia di miliardari benefattori Sackler, che ha deciso di ricorrere al Chapter 11, mandando in bancarotta la società con una successiva cessione e ristrutturazione per riuscire a pagare la somma miliardaria e cercare di riparare ai danni causati. L’accordo porterà alla ristrutturazione della società e alla sua trasformazione in un fondo. I profitti generati dalla vendita dei farmaci, tra cui l’OxyContin, andranno agli stati, alle città e alle comunità che hanno fatto causa a Purdue che si è impegnata a fornire i suoi farmaci per ridurre la dipendenza da oppiodi, farmaci come buprenorfine, metadone e naloxone. Le morti per oppiodi negli Usa hanno raggiunto i livelli record nel 2017 con 47.600 casi soprattutto tra la comunità nera e tra gli ispanici americani. Ma sono diminuite dal 2018, secondo i primi dati ufficiali. Dallo stesso anno le prescrizioni di medicinali con oppiodi sono diminuite del 28%, rispetto al picco del 2017. Le morti da overdose da Fentanyl sono aumentate anche in Canada, con la percentuale maggiore attorno all’area di Vancouver, e in Gran Bretagna. Nel 2017 il presidente Donald Trump ha dichiarato l’abuso di oppiodi un’«emergenza sanitaria nazionale» e ha raddoppiato il budget annuale per contrastarne la diffusione a circa 7,4 miliardi di dollari l’anno. Tra le 22 aziende farmaceutiche coinvolte nei processi ci sono Mallinckrodt, Teva Pharmaceutical – che ha già pagato oltre 80 milioni di risarcimenti – Endo International, Allergan e Insys Therapeutics. Il fondatore di Insys è stato condannato con l’accusa di avere pagato tangenti ai medici per aumentare le vendite di oppiodi e la società multata con 225 milioni. Assieme a loro ci sono le tre principali società di distribuzione del farmaco negli Usa: Cardinal Health, AmerisourceBergen e McKesson Corp. Tutte le aziende coinvolte, come Pursue Pharma, cercano la strada del patteggiamento accollandosi piani di risarcimento miliardari, per evitare i processi e la scia di lunghi contenziosi e rischio di danni maggiori. Il prossimo processo dopo quello di J&J comincerà in Ohio a ottobre contro tutti i 22 produttori. La crisi degli oppiodi che ha coinvolto le farmaceutiche Usa somiglia molto alla campagna contro il tabacco degli anni Novanta con le tante cause avviate da 46 stati contro le società produttrici per decenni di pratiche di marketing aggressive e pubblicità ingannevoli che contribuirono a quella che allora venne definita un’epidemia del tabacco per l’aumento esponenziale delle malattie e delle morti legate al fumo. L’industry del tabacco nel 1998 raggiunse un accordo con 45 stati e ha pagato negli anni successivi qualcosa come 125 miliardi di dollari in risarcimenti.
Anche l’Africa brucia. Forse più dell’Amazzonia, sicuramente più di quanto è bruciata la Siberia. Le fiamme divorano savane, boscaglie ma anche parti dell’immensa foresta pluviale del Bacino del fiume Congo, un polmone verde di oltre due milioni di chilometri quadrati che si distende attraverso sei Paesi. Le fiamme divampano, quasi in silenzio, lontano dai riflettori dei media internazionali, puntati in gran parte sul Brasile. L’occhio del satellite, però, ci racconta un’altra, preoccupante storia. I dati della Nasa hanno registrato in un tipico giorno di agosto di circa 10mila incendi nel mondo. Il 70% era in Africa. La scorsa settimana,nell’arco di pochi giorni, in Angola era scoppiati oltre 6mila incendi, nel Congo Rdc più di 3mila, nelle regioni amazzoniche del Brasile duemila e cento. Anche il secondo polmone verde del mondo è a rischio? A meno che non vengano adottati interventi su larga scala contro la deforestazione, sul lungo termine sono in pericolo tutte le grandi foreste. Ma la deforestazione in Africa non sta procedendo alla stessa allarmante velocità di quanto sta accadendo in Sud America. Nella foresta amazzonica i grandi incendi sono dovuti soprattutto al cambiamento climatico e alle siccità e stanno distruggendo la grande foresta pluviale. In Africa spesso sono incendi più ridotti. È la controversa pratica dello slash and burn. Contadini e pastori bruciano la vegetazione per avere terre fertili e pascoli. Che poi dopo qualche anno abbandonano. Accade soprattutto nelle aree limitrofe alla foresta e nelle savane. Qualche esperto di fama mondiale, come Sally Archibald, invoca una gestione migliore per questi «roghi tradizionali» ma arriva a sostenere che possano avere anche effetti positivi. Altri esperti precisano che i dati sulla deforestazione vanno letti in modo diverso perché i rapporti della Fao considerano foreste anche le piantagioni. Altri ancora puntano il dito sull’imponente incremento demografico che stravolgerà l’Africa nei prossimi 30 anni (più della metà della crescita demografica globale). Ecco perchéè il maggior fabbisogno alimentare della popolazione (non solo africana), che sta portando a quelle grandi monocolture dannose per l’ecosistema, rappresentano un grande pericolo. Gli incendi per ricavare carbone di legna, pratica molto diffusa nei Paesi più poveri dove l’accesso a gas ed eletricità è molto limitato, sono un altro preoccupante fenomeno africano. Così come le pratiche di governi inclini a rilasciare licenze illegali per il taglio del legname pregiato, che aggiungono benzina sul fuoco. Il vero nemico si chiama industrializzazione agricola, quella senza regole. Ciò che è accaduto in Costa d’Avorio e in Ghana deve suonare come un campanello di allarme. Per lasciar spazio alle monoculture di cacao (la loro produzione copre il 60% di quella mondiale) i due Paesi hanno già perso il 90% delle foreste originarie,denuciava in dicembre l’Ong Mighty Earth. La biodiversità è in grave pericolo, va tutelata, ha precisato la Fao in un rapporto pochi giorni fa. Le foreste africane possono esser salvate. Ma bisogna far presto. E agire insieme. Prima che sia tardi.
A due mesi dalla prevista uscita del Regno Unito dall’Unione prevale incredibilmente l’incertezza. I Ventisette restano in attesa di una nuova proposta inglese per risolvere l’annosa questione della frontiera tra le due Irlande. I primi colloqui tecnici non hanno portato ad alcunché. Intanto, il capo-negoziatore comunitario Michel Barnier ha preso posizione con un messaggio di rassicurazione nei confronti degli europei e di avvertimento rivolto agli inglesi. «Boris Johnson ha detto che il Regno Unito lascerà il 31 ottobre – ha scritto l’uomo politico in un tweet –. In qualsiasi circostanza, l’Unione continuerà a proteggere gli interessi dei suoi cittadini e imprese, così come le condizioni di pace e stabilità sull’isola di Irlanda. È nostro dovere e responsabilità». La presa di posizione è giunta dopo che mercoledì si è tenuta una riunione tra David Frost, il consigliere del premier Boris Johnson, e i negoziatori comunitari. Secondo le informazioni raccolte qui a Bruxelles i diplomatici non sono entrati nei dettagli, tanto che un nuovo incontro dovrebbe svolgersi la settimana prossima. Conosciamo le posizioni divergenti delle due parti in causa. Il governo Johnson rigetta il compromesso sulla frontiera irlandese (il cosiddetto backstop) trovato dall’Unione Europea con il governo May. I Ventisette sono pronti a discutere alternative, ma nulla che metta a repentaglio il mercato unico. La decisione del premier inglese di sospendere i lavori di Westminster ha provocato nuove incertezze sui negoziati tra Londra e Bruxelles. Si capisce che il premier voglia evitare in Parlamento un voto contro la Brexit, come paventato dall’opposizione al governo conservatore; ma si teme che Londra voglia anche ridurre i tempi della finestra negoziale, magari dividendo i Ventisette nell’ultimo miglio prima del 31 ottobre. Su questo fronte, a Copenhagen la premier danese Mette Frederiksen ha esortato ieri i partner a essere «il più flessibili e positivi possibile» dinanzi a eventuali «specifici suggerimenti» britannici per risolvere la questione irlandese (il backstop non piace a Boris Johnson perché prevede che il Regno Unito rimanga nell’unione doganale europea, e abbia quindi limitata autonomia commerciale). La frase non deve essere sovrainterpretata, ma è sintomatica dei diversi interessi tra gli Stati membri.
La Gran Bretagna è in tumulto per la decisione di Boris Johnson di sospendere il Parlamento per cinque settimane, ma gli oppositori del premier stanno delineando una strategia per impedire l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea senza un accordo il 31 ottobre. La strada scelta è quella di tentare di approvare una legge per rinviare Brexit nei pochissimi giorni a disposizione dopo il 3 settembre, data in cui il Parlamento riprende i lavori dopo la pausa estiva. Johnson intende fermare ogni attività parlamentare dal 10 settembre fino al 14 ottobre, data in cui ci sarà la riapertura formale con il tradizionale discorso della Regina che presenta il programma del nuovo Governo. Il premier insiste che la decisione non ha nulla a che fare con Brexit, ma di fatto la sospensione limita il tempo a disposizione dei deputati per bloccare un “no deal”. Ieri il leader dell’opposizione, il laburista Jeremy Corbyn, ha dichiarato che il Parlamento «legifererà rapidamente» la settimana prossima. «Torneremo in Parlamento martedì per sfidare Johnson su questo attentato alla nostra democrazia – ha detto -. Tenteremo di fermarlo con le armi della politica e della procedura parlamentare, approvando una legge per impedire no deal». La disponibilità di Corbyn a optare in prima istanza per la via legislativa è un segnale importante, perché una legge di rinvio di Brexit può ottenere il consenso di tutti i deputati dell’opposizione e anche di numerosi conservatori “ribelli”. Si tratta quindi di una strategia condivisibile e realistica, anche se da realizzare in tempi strettissimi. Lo speaker del Parlamento John Bercow, che ha definito la mossa di Johnson «un oltraggio alla Costituzione», farà di tutto per facilitare l’introduzione della mozione, il dibattito e l’approvazione. È necessario che la legge passi prima della chiusura del Parlamento perché qualsiasi norma non approvata decade automaticamente durante il periodo di sospensione. Per raggiungere l’obiettivo, il Parlamento potrebbe riunirsi in sessioni straordinarie anche durante il fine settimana, cosa che nell’ultimo secolo è avvenuta solo in casi eccezionali come la seconda guerra mondiale, la crisi di Suez o l’invasione delle Falkland/Malvinas. L’altra strada aperta alle opposizioni è una mozione di sfiducia contro il Governo, che se approvata dalla maggioranza dei deputati aprirebbe una crisi che porterebbe a elezioni anticipate. Il problema è che spetta al leader dell’opposizione chiedere la mozione di fiducia e Corbyn diventerebbe premier di un Governo di transizione in attesa di andare alle urne. L’ipotesi di un estremista di sinistra come Corbyn premier, anche se per un breve periodo, è inaccettabile per i deputati conservatori e liberaldemocratici. Una soluzione potrebbe essere un Governo di transizione guidato da un personaggio politico autorevole. È stato fatto il nome di Ken Clarke, il conservatore “padre del Parlamento” (deputato di maggiore anzianità a Westminster) ed ex ministro del Tesoro e della Giustizia. Proseguono intanto anche i tentativi di bloccare la sospensione per vie legali. Ieri pomeriggio a Londra si è tenuta una prima udienza, mentre simili tentativi sono in corso a Belfast e a Edimburgo. Il Governo ostenta sicurezza e Jacob Rees-Mogg, leader del Parlamento e grande sostenitore di Brexit, ieri ha definito «zucchero filato» la rabbia dei critici del Governo, che esprimono «un oltraggio fittizio montato ad arte». Johnson ha imposto il silenzio ai suoi ministri, ma ieri due personaggi di spicco hanno dato le dimissioni. La leader del partito conservatore in Scozia, Ruth Davidson, ha lasciato l’incarico dopo otto anni durante i quali ha rilanciato il partito ottenendo insperati successi elettorali, moltiplicando il numero di deputati Tory da uno a 13. La Davidson, pro-Ue e contraria a un no deal, ha detto che lascia l’incarico in parte per ragioni personali (ha un bambino di pochi mesi) e in parte a causa del «conflitto su Brexit». Il partito conservatore perde una leader capace e carismatica in Scozia, rafforzando il dominio dell’Snp al Governo a Edimburgo. Ha dato le dimissioni anche Lord Young, capo dei conservatori nella Camera dei Lord, spiegando in una lettera che «i tempi e la lunghezza della sospensione rischiano di minare il ruolo fondamentale del Parlamento». Intanto altre manifestazioni di protesta sono previste in tutto il Paese e la petizione online contro la sospensione del Parlamento ha superato il milione e mezzo di firme.
«Brexit è una dichiarazione di guerra. Non all’Unione europea, no. È una dichiarazione di guerra all’intelligenza». Howard Jacobson è uno degli scrittori più spiritosi della nostra epoca, vincitore del Man Booker che nel suo romanzo che esce oggi in Italia, Su con la vita (La Nave di Teseo) fa ridere fragorosamente il lettore già alla prima riga, con incipit fulminante. L’hanno definito «il Philip Roth inglese» e lui ha risposto che preferisce essere considerato «la Jane Austen ebrea», oggi però non ha voglia di scherzare: «Ho tante cose da dire, nessuna particolarmente buffa purtroppo». Il 31 ottobre si avvicina, l’uscita dall’Unione europea. Se lo aspettava? «Siamo all’ultimo stadio di una malattia che corrode il Regno Unito da molti anni, dalla fine dell’era industriale e l’inizio di quella post-industriale. Tanti lavoratori si sono trovati in difficoltà e i politici invece di studiare soluzioni li hanno aizzati contro le élite. La cosa grottesca è che questi presunti amici dei lavoratori sono nati ricchi e hanno frequentato le scuole più costose, come Boris Johnson. Figuri che con i lavoratori non hanno nulla a che spartire e ai quali dei lavoratori non importa nulla». Johnson ha scritto un romanzo alcuni anni fa. È un suo collega in un certo senso. «Ne ho letto qualche passaggio: un libro allucinante. Non è uno scrittore, è diventato famoso come giornalista perché ha la battuta pronta, tutto lì». Una cosa positiva almeno su Johnson? «Non è un antisemita, non ha la minima tendenza antisemita, lo garantisco. In questi anni di crescente antisemitismo in Gran Bretagna, è una buona notizia». L’antisemitismo nel Labour è un problema di Jeremy Corbyn. «Un problema vero, terribile. Corbyn vuole Brexit ancora più fortemente di Boris: Boris, se la situazione davvero precipitasse, farebbe retromarcia senza battere ciglio e sarebbe il primo a elogiare l’Europa, non ha scrupoli. Corbyn inveceèun manicheo, rigidissimo. Mi ricorda quelli che negli anni Trenta ripetevano meccanicamente le direttive ricevute da Mosca, che però erano più intelligenti di lui. Ma la cosa più grave non è nemmeno l’uscita dall’Europa». Qual è allora? «Questa guerra contro l’intelligenza, l’idea che non bisogna fidarsi di chi sa le cose perché esiste una sorta di intelligenza popolare che grazie a Internet può risolvere tutto». Cosa succede adesso? «La mia previsione? Boris troverà il modo di fare una modifica infinitesimale al backstop sull’Irlanda del Nord, la presenterà all’Europa come se fosse la soluzione di tutto, mentendo sconciamente, e chiederà delle concessioni. Se non le otterrà, tanto peggio». Un pensiero felice oggi? «Sto per partire per Mantova, mi hanno invitato al Festivaletteratura. È il posto che preferisco al mondo: vedrò tanti amici, andrò in piazza, mangeròibigoli e berrò Valpolicella e mi sembrerà di essere in paradiso. Poi però dovrò tornare a casa».
Nel 1993 John Major, primo ministro conservatore, definì l’opposizione interna — a microfoni spenti, pensava, ma venne registrato — come l’ala dei «bastardi». Altri tempi: adesso Boris Johnson non ha soltanto il problema dei «Remainer» conservatori che non vogliono Brexit e di quelli favorevoli a Brexit ma che vogliono assolutamente un accordo con Bruxelles e bloccherebbero un «no deal». Johnson — «Re Boris» come lo chiamano dall’altro ieri, dopo che ha di fatto chiuso il parlamento—oltre ai «bastardi» vecchio stile e alle dimissioni per protesta della leader del partito in Scozia Ruth Davidson e di George Young nella Camera dei Lord, deve anche affrontare un Parlamento indecifrabile. E diviso in otto «tribù», così le chiamano i giornali londinesi, mentre noi italiani abituati a queste cose le chiamiamo da una vita «correnti». Martedì il parlamento aprirà dopo la pausa estiva e, prima di essere chiuso da Johnson tra l’11 e il 13 settembre, per riaprire poi un mese più tardi, potrebbe avere abbastanza tempo per sfiduciare il governo. Ci sono i «kamikaze» conservatori che sono tanto contrari a Johnson da esser pronti a far cadere il governo, portare il Paese alle urne — e finire irrimediabilmente espulsi. Ci sono i «deal-maker» conservatori, convinti che Johnson riuscirà a trovare un accordo con l’Europa al summit del 17 ottobre, quattro giorni dopo la riapertura del parlamento britannico. Il Times ipotizza che siano «dozzine» i deputati conservatori pronti a votare per qualsiasi cosa porti a un accordo con l’Ue, o a un altro rinvio. Tra i «deal-maker» c’è un sottogruppo di lealisti verso Theresa May che vogliono difendere l’accordo da lei trovato: il «no-deal» è inaccettabile per la squadra di May. Lo Stato maggiore Tory ha notoriamente studiato a Oxford o Cambridge (Johnson è laureato in Greco e Latino), e non poteva così mancare la corrente degli «Spartani». Vogliono uscire subito, qualunque dilazione o accordo è inaccettabile, vogliono far saltare il «backstop» come dice Johnson ma sono alla sua destra, praticamente una corrente conservatrice sulle stesse posizioni di Nigel Farage e dei pro-Brexit più scatenati. C’è poi l’«alleanza per Remain», i liberaldemocratici, lo Scottish National Party, i verdi, i gallesi di Plaid Cymru. Erano lo zoccolo duro del possibile supportoaun governo di unità nazionale per fermare Johnson: si sono incartati sul nome del primo ministro quando Jeremy Corbyn, leader laburista, non ha accettato alternative al suo nome (inaccettabile per i Tories ribelli). Ieri Corbyn ha annunciato: «Cercheremo di fermare Johnson politicamente martedì con un processo parlamentare per prevenire una Brexit no deal». Il Labour? Spaccato tra favorevoli a Brexit con accordo (solo cinque votarono per l’accordo di May) e i Remainer duri e puri.
«Salvini non ha capito che non doveva mettersi contro il partito delle mogli e degli ombrelloni…». Gianfranco Rotondi cosa sta dicendo? «Che non si fanno le crisi in agosto. Comunque io al “Papeete” ho contrapposto il Lido Mare di Pineto». Anche lei alla consolle? «No, al telefono con i miei contatti politici. È molto importante la gestione di questo momento». E cosa ha architettato al telefono dal Lido Mare? «Il primo fondamentale punto: mai conisovranisti. I moderati non si sono mai alleati con la destra, guardiamo il Ppe in Europa: la Merkel si allea con i socialisti, non con la destra. E infatti Forza Italia quando si è alleata con Alleanza nazionale ha aspettato prima la svolta di Fiuggi di Fini che ha fatto diventare An un partito riformista». Quindi con chi si dovrà alleare Forza Italia? «Non avrà bisogno di allearsi con nessuno». In che senso? «Se non sbaglio al primo punto del programma del governo che si va costituendo c’è il taglio dei parlamentari, e questa legge inserisce un correttivo al maggioritario, ovvero una legge elettorale proporzionale. Ecco perché non ci sarà più il tema delle alleanze. Si torna al passato». Ovvero? «Quando la Dc si presentava agli elettori non aveva bisogno di dire che si sarebbe alleata con il Psi di Craxi». Nostalgia della «Balena bianca»? «Diciamo che la nostalgia è più per quel Partito italiano dello storico Agostino Giovagnoli. Ecco, è questo che vorrei suggerireaSilvio Berlusconi». Di costituire il Partito italiano? «Sì. Forza Italia dovrebbe fare una grande chiamata alle armi di tutte le grandi culture politiche del Novecento in chiave moderata. Con una grande ambizione». Quale ambizione? «Questa chiamata alle armi deve avere l’ambizione a farci diventare il primo partito». Ha già parlato di questo con Silvio Berlusconi? «Ancora no. Intanto fondamentale per la realizzazione di questo progetto è un atto di coraggio: la disdetta irrevocabile di qualsiasi alleanza con i sovranisti». Intravede questo pericolo? «Più che intravederlo lo temo, ci farebbe perdere troppi consensi. Sebbene fino ad ora Berlusconi stia prendendo abbondantemente le distanze dai sovranisti. Anche nella forma dell’opposizione». Che cosa vuole dire? «Matteo Salvini e Giorgia Meloni mi risulta che non parteciperanno alle consultazioni. Berlusconi sì. Ma non solo». Che cosa altro? «La leader di Fratelli d’Italia e il leader della Lega hanno già invocato la piazza per la protesta. Meglio, l’hanno già addirittura convocata. Il mio leader di Forza Italia no». Alessandra Arachi
«Nel Movimento, gli iscritti hanno la prima parola…». Pausa, Max Bugani si avvicina a passo svelto verso il portone di Palazzo Chigi. Senza fermarsi, gira la testa verso la piazza. Aggiunge quel che deve per completare la frase. «… E anche l’ultima». Ecco, finisse nel peggiore del modi, con gli iscritti alla piattaforma Rousseau che votano in maggioranza contro il varo della nuova maggioranza giallorossa e contro il governo Conte 2, la scena iniziale del film sarebbe questa. Giovedì 28 agosto, quasi sera, manca poco al momento in cui Giovanni Grasso, consigliere per la comunicazione del Quirinale, darà conto della convocazione di Giuseppe Conte per l’incarico. Bugani, uomo forte dell’Associazione Rousseau, da qualche tempo in rotta con Luigi di Maio, che raggiunge proprio Di Maio a Palazzo Chigi. Cammina a passo svelto affiancato da Pietro Dettori, uomo cerniera tra la Casaleggio associati e i pentastellati di governo, che invece a Di Maio è legatissimo. E si fa carico lui, Bugani, di dirlo. Di dire che la piattaforma Rousseau avrà l’ultima parola su tutto. Ma fa così paura quel ricorso alla consultazione online che Di Maio — anche nel tesissimo colloquio telefonico con Nicola Zingaretti di mercoledì sera, quando tutto sembrava che dovesse precipitare per la sua casella aggiuntiva di vicepremier — ha evocato come fosse l’arma fine di mondo? Davvero il voto sulla piattaforma Rousseau è in grado di fermare le macchine di un governo già partito? La risposta, probabilmente, sta in un foglietto che alla Casaleggio custodiscono gelosamente. Contiene, freschi freschi di lunedì mattina, i sondaggi riservati sulla popolarità di Conte nell’elettorato M5S, i primi che tengono conto delle bordate anti-Salvini che il presidente del Consiglio ha tirato fuori nelle comunicazioni al Senato del 20 agosto. «Oltre il 60 per cento», scandisce chi ha avuto modo di vederli. Tanto per capirci, la popolarità del premier uscenteerientrante tra gli elettori è oggi di almeno quattro volte superiore a quella, tanto per fare due esempi, di Di Maio o di Alessandro Di Battista. Ed è questo il motivo che spinge la gran parte dei parlamentari del Movimento — ostili, per la stragrande maggioranza, al ricorso a un sondaggio che potrebbe rimettere in discussione la svolta giallorossa — a non perdere la calma. Già,i parlamentari. Nella seduta congiunta degli eletti a Camera e Senato che s’è tenuta l’altra sera, Di Maio non c’era, gli interventi a favore del Conte 2 sono stati la quasi totalità. I contrari o i perplessi sono facili da contare, sono quelli che hanno espresso dissenso pubblico (tipo Gianluigi Paragone) o prudenza (come Stefano Buffagni). Per la stragrande maggioranza di deputati e senatori, ilricorso alla consultazione su Rousseau è comunque un pensiero fastidioso perché sarebbero loro — non altri, non Conte, men che meno il Pd, figurarsi il Colle — i destinatari del diktat. Perché c’è un solo momento, uno solo, in cui l’improbabile «no» degli iscritti M5S al governo può trasformarsi in una richiesta formale. Quale? Semplice, il voto di fiducia al nuovo governo alle Camere. Il «bug», insomma, non è nel software. Né nel meccanismo decisionale. Sarebbe lì, nell’incredibile richiesta ai parlamentari di votare contro un governo che nasce proprio su impulso del Movimento, con un premier scelto dal Movimento che coincide, tra l’altro, con la personalità più amata dagli elettori del Movimento. Chi lavora sulla formulazione del quesito se lo immagina così. Semplice semplice, concentrato sulla parola «Conte», senza citare il Pd. «Volete voi che nasca un governo Conte 2, che si pone come obiettivi…?», e via con l’elenco dei punti programmatici. Da quando esiste l’ultima versione di Rousseau, il sì alle richieste formulate da Roma ha sempre vinto. La consultazione dovrebbe aprirsi il giorno prima che Conte torni da Mattarella per sciogliere la riserva. Poi, nella sede dell’Associazione Rousseau, farà il suo ingresso Valerio Tacchini, amico storico di BeppeGrillo e notaio del M5S. Gli daranno la solita sedia, su cui s’è già accomodato durante le altre votazioni, compresa quella delicatissima sul processo a Salvini per la storia della nave Diciotti. La sedia verrà posizionata davanti al solito computer. Poi, cronometro alla mano, Tacchini prenderà carta e penna e fisserà i numeretti dei sì e dei no all’ora esatta di chiusura della votazione. Che pare più scontata di quanto non sembri. Pare.