Il governo sbagliato, nato per fare una cosa giusta, per non diventare il governo sbagliato che fa anche la cosa sbagliata ha la necessità naturale di portare avanti un progetto inderogabile, per quanto inconfessabile, che coincide con il massimo della discontinuità possibile: cancellare i quattordici mesi del governo populista sostituendo una maggioranza di governo formata da due populismi con un’altra maggioranza di governo formata principalmente da un populismo sgonfiato che per rimanere in piedi è costretto a poggiarsi sulla stampella di un partito, come il Pd, che è la negazione di tutto quello che fino a qualche tempo fa era il Movimento 5 stelle. All’interno di un governo formato dal Movimento 5 stelle non ci potrà naturalmente essere nulla di serio e nulla di strategico. Ma per quanto sia possibile che la vicinanza al M5s possa trasformare il Pd nella sesta stella di Beppe Grillo (speriamo di no) è altrettanto vero che l’agonia del Movimento 5 stelle (l’esecutivo giurerà a Bibbiano?) può permettere al Pd di usare questo governo per combattere insieme due populismi: quello vitale, antieuropeo, antisistema, antieuro, anti immigrati, xenofobo, sfascista incarnato dalla Lega e quello morente, ostile alla democrazia rappresentativa, ostile allo stato di diritto, ostile all’atlantismo, ostile al mercato, ostile alla globalizzazione, incarnato dal Movimento 5 stelle. Nel primo caso, per combattere il sovranismo che speriamo resti a lungo all’opposizione come sembra desiderare persino Donald Trump che ieri ha twittato in favore della premiership dell’amico Giuseppi Conte (lo ha chiamato davvero così), sarà sufficiente rendere il nuovo governo più presentabile rispetto a quello passato sul rispetto del diritto del mare, sul rispetto dell’Europa, sul rispetto dei trattati, sul rispetto delle imprese, sul rispetto dei fondamentali della nostra economia. Nel secondo caso, per combattere il populismo che continuerà invece a essere al governo, sarà sufficiente dimostrare ogni giorno che la possibilità del nuovo esecutivo di non fare la fine di quello precedente passa dal necessario rinnegamento della linea del vecchio governo. Il nostro amico Giuliano Da Empoli ha ragione a dire che, rispetto alla traiettoria del Pd, c’è una linea piuttosto sottile (ma essenziale) che separa l’esercizio del senso di responsabilità dall’harakiri. Ma oggi il Pd ha una grande anche se complicata opportunità: riuscire nel miracolo di utilizzare i parlamentari appartenenti a un populismo morto per provare a guidare un governo capace a colpi di discontinuità di uccidere un populismo ancora vitale. L’harakiri dell’unica opposizione al populismo è naturalmente possibile, ma la possibilità che il governo rosso-giallo metta in scena l’harakiri non solo del leghismo ma anche del grillismo è uno show per il quale forse vale la pena mettersi lì comodi, pagare il biglietto e godersi lo spettacolo.

La ragione per cui nel corso della giornata di ieri la trattativa tra il Movimento 5 stelle e il Partito democratico è stata a un passo dal saltare del tutto è legata a una parolina magica che nelle ultime ore è stata al centro del pazzo dialogo tra il partito guidato da Luigi Di Maio e quello guidato da Nicola Zingaretti: la discontinuità. Il segretario del Pd ha tentato in tutti i modi di condurre le trattative con il M5s cercando il più possibile di evitare che l’alleanza con il grillismo desse come risultato un governo fotocopia di quello passato, con i ministri del Pd che, nella logica del M5s, non dovrebbero fare altro che prendere il posto dei ministri della Lega. Nasce da qui, intorno al tema della discontinuità, il confronto e lo scontro sul taglio del numero dei parlamentari (sintesi: se il Pd vuole fare un accordo con noi deve farci fare quello che la Lega non ci ha fatto fare). Nasce da qui, intorno al tema della discontinuità, il confronto e lo scontro sul tema del decalogo proposto da Luigi Di Maio (i dieci punti proposti dal capo politico del M5s sono una sintesi estrema del contratto di governo firmato con la Lega e il ragionamento di fondo è sempre quello: se il Pd vuole fare un accordo con noi deve farci fare quello che la Lega non ci ha fatto fare). Nasce da qui, infine, lo scontro sul nome del presidente del Consiglio (Zingaretti voleva un altro nome, il M5s ha detto o Conte o nulla, Zingaretti ha detto ok Conte, ma dateci discontinuità forte con i ministri, con il programma). Con un gruppo parlamentare che tra Camera e Senato pesa più o meno il doppio rispetto a quello del Pd, per Nicola Zingaretti, una volta accettato di voler costruire un governo con il M5s, sarà difficile ottenere la discontinuità sognata ed è comprensibile che il leader del Pd sia interessato a dimostrare che la discontinuità vera rispetto al passato sarà sui temi più che sugli equilibri di governo. Fin qui tutto chiaro e tutto lineare. Ma ciò che negli ultimi giorni sembra essere sfuggito a molti osservatori è legato alla ragione per cui – nono – stante i molti tratti di continuità rispetto al passato accettati dal Pd nel corso delle trattative per il governo – il Movimento 5 stelle abbia cercato fino all’ultimo di trovare una buona scusa per far saltare l’accordo con il Pd. E la ragione è presto detta e potrebbe aiutarci a osservare il governo rosso-giallo con una lente di ingrandimento adeguata. Per quanto il M5s possa tentare di dimostrare ai suoi elettori che costruire un esecutivo con il Pd non costituisce alcuna contraddizione rispetto al progetto originario del grillismo, la verità è questa: passare nel giro di poche settimane dal governare con un altro partito populista e antieuropeista al governare con un partito non populista ed europeista è il segno non solo di una resa ma di una certificazione plastica di discontinuità con il passato. Il governo sbagliato, nato per fare una cosa giusta, per non diventare il governo sbagliato che fa anche la cosa sbagliata ha la necessità naturale di portare avanti un progetto inderogabile, per quanto inconfessabile, che coincide con il massimo della discontinuità possibile: cancellare i quattordici mesi del governo populista sostituendo una maggioranza di governo formata da due populismi con un’altra maggioranza di governo formata principalmente da un populismo sgonfiato che per rimanere in piedi è costretto a poggiarsi sulla stampella di un partito, come il Pd, che è la negazione di tutto quello che fino a qualche tempo fa era il Movimento 5 stelle. All’interno di un governo formato dal Movimento 5 stelle non ci potrà naturalmente essere nulla di serio e nulla di strategico. Ma per quanto sia possibile che la vicinanza al M5s possa trasformare il Pd nella sesta stella di Beppe Grillo (speriamo di no) è altrettanto vero che l’agonia del Movimento 5 stelle (l’esecutivo giurerà a Bibbiano?) può permettere al Pd di usare questo governo per combattere insieme due populismi: quello vitale, antieuropeo, antisistema, antieuro, anti immigrati, xenofobo, sfascista incarnato dalla Lega e quello morente, ostile alla democrazia rappresentativa, ostile allo stato di diritto, ostile all’atlantismo, ostile al mercato, ostile alla globalizzazione, incarnato dal Movimento 5 stelle. Nel primo caso, per combattere il sovranismo che speriamo resti a lungo all’opposizione come sembra desiderare persino Donald Trump che ieri ha twittato in favore della premiership dell’amico Giuseppi Conte (lo ha chiamato davvero così), sarà sufficiente rendere il nuovo governo più presentabile rispetto a quello passato sul rispetto del diritto del mare, sul rispetto dell’Europa, sul rispetto dei trattati, sul rispetto delle imprese, sul rispetto dei fondamentali della nostra economia. Nel secondo caso, per combattere il populismo che continuerà invece a essere al governo, sarà sufficiente dimostrare ogni giorno che la possibilità del nuovo esecutivo di non fare la fine di quello precedente passa dal necessario rinnegamento della linea del vecchio governo. Il nostro amico Giuliano Da Empoli ha ragione a dire che, rispetto alla traiettoria del Pd, c’è una linea piuttosto sottile (ma essenziale) che separa l’esercizio del senso di responsabilità dall’harakiri. Ma oggi il Pd ha una grande anche se complicata opportunità: riuscire nel miracolo di utilizzare i parlamentari appartenenti a un populismo morto per provare a guidare un governo capace a colpi di discontinuità di uccidere un populismo ancora vitale. L’harakiri dell’unica opposizione al populismo è naturalmente possibile, ma la possibilità che il governo rosso-giallo metta in scena l’harakiri non solo del leghismo ma anche del grillismo è uno show per il quale forse vale la pena mettersi lì comodi, pagare il biglietto e godersi lo spettacolo.

La buona letteratura, anche quella insensata di Paolo Nori, ha una potenza di fuoco dissimulata ma ineguagliabile. Ieri Nori ha raccontato qui il suo secondo viaggio in Russia, fatale. Una storia di magnifico nullismo, molto oltre il minimalismo, e di allusioni elegiache, aperta da un incipit che è un commento perfetto al primo viaggio italiano nel trucismo, durato un anno e mezzo, che non è poco. Scrive Nori: “La penultima volta che ho letto Anna Karenina ho avuto l’impressione che Tolstoi dicesse che le persone che frequentiamo sono come dei pianeti, e determinano le nostre orbite. E mi è tornato in mente un libro di uno scrittore francese contemporaneo, che diceva che ci sono dei momenti, nella tua vita, che una persona sparisce, la tua fidanzata ti lascia e tu, da un lato stai malissimo, dall’altro lato succede, all’improvviso, che il mondo si ripopola. Una persona sparisce e il mondo si ripopola. Perché tu hai cambiato orbita”. Il Truce è sparito (da oggi posso tornare a chiamarlo banalmente Salvini o Matteo), abita le pagine interne dei giornali, sfuma sui social dove è fomite di noia dopo tanta gioia procurata alla massa rincretinita che lo ammirava, sta facendo gli scatoloni per lasciare il Viminale a qualche zingaraccio giallorosso, ammorba di sopore conferenze stampa in giacca e cravatta e ha smesso di chiedere pieni poteri, si accontenterebbe di conservare il suo posto di non lavoro, si prepara a fronteggiare la brava gente della Lega che voleva meno tasse e più infrastrutture ma non a torso nudo, ripete la tonteria del ribaltone, lui che ha fatto il ribaltone numero tre o quattro a Berlusconi mollandolo per unire il suo brillante 17 per cento al 32 dei grillozzi, e facendolo contare il doppio o il triplo nella fogna di Facebook e di Instagram: sarà inseguito per gli acquisti dai vucumprà sulla via maestra del voto popolare a ripetizione e senza giustificazione, visto che morto un governo se ne fa un altro, e il voto alla carta, su ordinazione, è un mito attivistico d’azione del mai così affollato cretinismo italiano. Giuseppi l’amerikano vola alto, dopo averlo processato con maniere alla Tina Pica, e per lui non arriva una citazione neanche da Novosibirsk, nonostante Savoinov. Lo abbiamo perduto, questo fidanzato d’Italia sprovveduto, tenutario del piccolo bordello milanomarittimo che voleva spacciarsi per una riviviscenza del più scemo mussolinismo, Pitigrilli compreso, e il mondo si ripopola, e abbiamo cambiato orbita. Trovo curioso che tanti bravi amici non sentano che bella aria nuova si respira nel nuovo spazio siderale, come l’assenza di quel governo e di quella maggioranza e sopra tutto del suo boss grintoso e padronale ma vuoto, sia una brezza purificatrice che ci asciuga del sudaticcio del cambiamento, in attesa dei pasticci, delle deludenti partitine correntizie, della solita disamministrazione italiana probabile, salvo sorprese, con un governo composto di morti e sopravvissuti, che però si fregia di essere la buona o bonaria soluzione parlamentare europea e machiavellica della ricorrente crisi italiana, qualcosa di complicato, scombiccherato, grottesco e supremamente utile. Scomparso quel tratto di scostumatezza, di trasandatezza, di falso e modesto popolareggiamento di teatro, e finita quell’aura malsana di respingimenti, nutelle, crocifissi come amuleti, caccia al negro, censimento di zingari, esaurito quel facilismo beota della sottocultura extraeuro e del cortigianesimo automatico e servo di una bella fetta di giornalisti e amministratori del giornalismo. Ci vorrà un po’ di tempo perché certi stomaci deboli e certe anime belle digeriscano quel bolo alimentare che servirà nel 2022 a una maggioranza presidenziale non ottusa. Intanto accontentiamoci di registrare il salvinismo come una variante di ex successo del melonismo.

L’endorsement di Trump a Conte non è solo una benedizione che viene dal più importante Paese alleato, ma trasmette una serie di segnali interni che raccontano come cambierà il suo ruolo, se davvero ci sarà il bis. Innanzitutto il significato politico di questo “schieramento” americano va messo anche in relazione con il leader della Lega, perché nel momento delle dimissioni al Senato, Conte si è voluto connotare come l’anti-Salvini ed è stato lui a Biarritz a chiudere il “forno” con la Lega. Ed è in questa chiave che hanno fatto fronte comune non solo le cosiddette cancellerie internazionali e l’Europa ma pure il Vaticano che sull’immigrazione era in rotta di collisione con il Viminale. Resta però ancora un’ambiguità sulla figura del candidato bis a Palazzo Chigi emersa nella trattativa con il Pd che spinge affinché non venga considerato “terzo” ma sia a tutti gli effetti il nome dei 5 Stelle. Un passaggio che ha evidenti ricadute sulla questione vicepremier (che quindi dovrebbe essere uno solo e del Pd) e del sottosegretario alla presidenza del Consiglio che – invece – come da prassi verrebbe scelto dal capo del Governo, non dai Democratici. Da questo snodo che impegna i due partiti, dipendono pure i rispettivi pesi da distribuire nella scelta dei ministri e anche su questo, si chiede che Conte non sia un mero spettatore. Questioni politiche, sì, ma che si sposano con l’obiettivo costituzionale del Quirinale di riportare il presidente del Consiglio dentro gli ambiti della Carta. Nel senso che secondo la Costituzione l’inquilino di Palazzo Chigi deve essere il leader e il coordinatore del Governo, non il garante di un contratto. E quella che è stata un’anomalia – peraltro fallita – dell’Esecutivo del cambiamento si avvia a essere archiviata. Innanzitutto perché questa volta, secondo l’impostazione data dal Colle, si è messo subito sul tavolo della trattativa il nome del premier. Non quindi un contratto con due programmi che si assemblano e solo in seconda battuta un premier-terzo che di volta in volta dirime dissidi. «Dirige la politica generale del Governo e ne è responsabile», dice la Costituzione e dunque, se Conte verrà incaricato, ci si aspetta che sia lui a dettagliare i punti dell’agenda e a portare una squadra di ministri che verranno nominati da Mattarella su proposta – appunto – del presidente del Consiglio. Quello che si richiede è insomma una discontinuità logica e metodologica sul capo del Governo. Se poi l’intesa tra Pd e 5 Stelle dovesse andare in porto, il capo dello Stato affiderà a Conte (stasera o al massimo domani mattina) un mandato pieno durante il quale farà le sue consultazioni e definirà con i partiti la sua lista di ministri e le priorità. Serviranno giorni, anche per l’esigenza di sancire una cesura con il passato e non attuare un veloce ribaltone trasformistico. Giorni che verranno accordati dal Colle. Diverso è stato il tempo perso lo scorso fine settimana: personalità del gruppo Misto hanno raccontato che questo avrebbe infastidito il capo dello Stato e che in caso di fallimento ultimo, lui non esiterà a formare un governo di garanzia e sciogliere le Camere.

Basta con i contratti stipulati tra partiti, che Parlamento e governo recepiscono passivamente. Quella novità anomala, introdotta lo scorso anno sull’onda del populismo, dev’essere archiviata in fretta. E basta anche con la forzatura dei premier chiamati a realizzare «libri dei sogni» su cui non hanno potuto nemmeno mettere bocca: se come pare toccherà di nuovo a Giuseppe Conte guidare il prossimo governo, il presidente della Repubblica si attende che stavolta sia lui a prendere da subito in mano il timone, tracciando la rotta programmatica e scegliendosi la squadra ministeriale. Non è l’uomo del Colle a stabilirlo, ma la Costituzione all’articolo 95 (il premier «dirige la politica generale del governo e ne è responsabile»). Ecco, dunque, la prima richiesta che Conte si sentirà rivolgere da Sergio Mattarella quando riceverà l’incarico, probabilmente domattina: riportare i buoi davanti al carro. Osservare cioè le sane regole del galateo costituzionale seguite per 70 anni, che prevedono dapprima consultazioni dell’incaricato con tutti i partiti, poi l’elaborazione di un programma di governo serio e puntuale, infine la scelta di ministri su cui il capo dello Stato (è lui a nominarli, su proposta del premier) non abbia nulla da obiettare. Brutto spettacolo Per completare tutto questo percorso, il Quirinale non metterà alcuna fretta; addirittura, qualora a Conte servissero alcuni giorni in più, lassù nessuno solleverà obiezioni. Ragionevolmente verrà concessa una settimana di tempo, anche allo scopo di marcare meglio la fine della parentesi giallo-verde e l’inizio della stagione giallo-rossa. Del resto, una volta imboccata l’uscita dalla crisi, non c’è più motivo di correre al galoppo. L’importante, agli occhi di Mattarella, è che stavolta Conte possa esercitare fino in fondo il suo ruolo. E che dai partiti della maggioranza gli venga consentito di esercitarlo. Il che, fino a ieri mattina, non era affatto scontato. Anzi, sembrava che la trattativa tra Cinque stelle e Pd fosse sul punto di incagliarsi sui vice-premier. Dire che il capo dello Stato ne abbia provato sconcerto, è un eufemismo. Non perché Mattarella faccia il tifo per un Conte-bis (chi lo frequenta segnala semmai un certo distacco presidenziale, quasi ai confini dello scetticismo, rispetto al “ribaltone” in atto), ma per lo spettacolo poco nobile offerto al paese. L’avidità per le poltrone dimostra che alcuni protagonisti non hanno imparato nulla. Altri se ne sono andati addirittura al mare durante il week-end, lasciando l’Italia a macerarsi nell’incertezza. In caso di rottura Escluso che Mattarella, per come è fatto, possa approvare comportamenti del genere. Anzi, se si dà retta a una fonte autorevole che componeva la delegazione del Gruppo misto, ricevuta ieri pomeriggio nell’ambito delle consultazioni, il presidente ha manifestato apertamente delusione e rammarico. Durante quel colloquio ha pure anticipato che, se oggi Cinque stelle e Dem non sapranno trovare un accordo, si guarderà bene dal concedere dilazioni. E già stasera metterà in campo il governo di garanzia che ci porterà alle urne.

Quando all’ora di pranzo ha sfogliato le agenzie di stampa che riassumevano l’avvio della giornata tra incontri rinviati, nuove pretese irrinunciabili, rivendicazioni, dinieghi, fughe in avanti e scambi d’accuse, Sergio Mattarella ha scosso la testa in segno di sfiducia. «Il dialogo si è interrotto, siamo di nuovo allo stallo», ha detto ai consiglieri, mostrandosi esplicitamente dubbioso sulle possibilità di tenereabattesimo una maggioranza. E dunque, dopo aver seguito con irritazione per l’intero weekend svogliate trattative (con qualche leader addirittura in vacanza), è apparso rassegnatoaquello scioglimento delle Camere che—come aveva spiegato— è sempre «una decisione da non prendere alla leggera», da parte sua. Poi, contro ogni aspettativa, il barometro politico è svoltato verso il bello. Con un incrocio di puntualizzazioni dai 5 Stelle e dal Pd in cui si segnalava che la trattativa «non è saltata», che «non esistono veti», che «certi retroscena sono falsi» e che su Giuseppe Conte per Palazzo Chigi «c’erano stati grandi passi avanti». Così, a metà pomeriggio, il capo dello Stato ha potuto cominciare ieri il suo secondo giro di consultazioni con maggiori aspettative. Certo, da un’ora all’altra tutto può cambiare anche drasticamente, visto che il momento della verità scatterà soltanto nel pomeriggio di oggi, quando saliranno al Quirinale i due potenziali partner di governo, Zingaretti e Di Maio. Per evitare che Mattarella spari «il colpo» che ha in canna, cioè il varo di un esecutivo di garanzia elettorale facendo aprire le urne il 10 novembre, dovranno spiegargli con chiarezza alcune cose. Quale sarà, numeri alla mano, il perimetro della maggioranza che vogliono costituire e, se saranno già in grado di delinearle, su quali basi programmatiche. Ma soprattutto dovranno dire a chi intendono affidare il ruolo di premier. Se, come ormai è assodato, sarà Conte, si prevede una sua rapidissima convocazione sul Colle, per formalizzare l’incarico probabilmente entro la mattinata di domani. E se Conte chiederà al presidente qualche giorno per definire il programma e la struttura del governo con i nomi dei ministri, gli sarà concesso. E qui sta il punto politico più delicato di questa crisi. Mattarella, infatti, chiederà a Conte di tornare alla prassi costituzionale per la quale è il premier incaricatoadover darsi da fare per mettere in navigazione il proprio governo. Va quindi rovesciato lo schema che era stato applicato 14 mesi fa, quando i 5 Stelle e la Lega catapultarono a Palazzo Chigi lo sconosciuto «avvocato del popolo», facendogli trovare un «contratto» scritto da loroaquattro mani, facendogli firmare l’elenco dettagliato dei responsabili dei vari dicasteri e vegliando su di lui con due vicepremier sospettosi l’uno dell’altro. Certo, allora c’era un’emergenza governabilità e il Movimento di Grillo aveva fatto dissipare al Paese 89 giorni in un inutile gioco dei due forni, prima con il Pd e poi con la Lega. Quello fu evidentemente il peccato originale dell’esecutivo gialloverde, il primo populista-sovranista in Europa, nato senza una visione strategica comune né valori condivisi. E unito, appunto, da un accordo d’impronta notarile più che politica. Stavolta le cose non potranno andare allo stesso modo. E, si osserva al Quirinale, se Conte vuole fare sul serio il premier — tanto più dopo l’endorsement venuto ieri da Trump — dovrà impugnare il timone fin da subito. Un piccolo aiuto pare glielo abbia dato il Colle, su sollecitazione dei democratici, spingendolo a fare pressione sui 5 Stelle perché evitino impuntature sul modello del doppio vicepremier. Pretenderne un replay sarebbe troppo, per il Pd. Conte ha capito e ha raccolto la responsabilità, facendo cambiare la giornata.

C’e una cosa che, in questa crisi di mezza estate, non riesco a capire ed è perche Nicola Zingaretti abbia deciso di suicidarsi. Che la decisione del segretario del Pd di far nascere un esecutivo guidato da Giuseppe Conte sia un atto estremo di autolesionismo ovviamente non c’è dubbio. Chiunque abbia un briciolo di fiuto politico infatti sa che avere acconsentito al varo di questo governo, per il povero governatore del Lazio, equivale ad aver affondato la propria carriera politica. Zingaretti ha fatto tutto cio che gli ha ordinato Matteo Renzi, cioe il suo principale nemico. e non solo ha assecondato i desideri delfeit premier, ma ha detto si dopo aver giurato e spergiurato che avrebbe detto no. Certo, tut.t.i i politici sono abituati alle giravolte, e il governatore del Lazio conferma 1’abitudine. Ma di regola, chi si contraddice lo fa inseguendo un iine che coincide con il proprio interesse. In questo caso no: con Zingaretti siamo di fronte a un segretario che cambia opinione, ma non perche abbia intravisto un`opportunità migliore per il proprio futuro e nemmeno si sia ricreduto su quanto aveva promesso. No, qui siamo davanti a un signore che sa perfettamente di fare il contrario di cio che gli converrebbe, ma non ha il coraggio di cambiare, e dunque si avvia a testa bassa verso il patibolo. Già, perché il nascente governo, per il segretario del Pd e una forca a cui rischia di essere impiccato insieme all’intero partito. Una forca che gli ha preparato il suo più fiero e irriducibile avversario, cioe Matteo Renzi, che non vuole solo riprendersi il Pd, ma vuole anche il governo e dunque il PaeEE. La storia e semplice. Il fu presidente del Consiglio e stato cost.retto a sgombrare tre anni fa a seguito della sconlitta al referendum costituzionale. Fosse stato per lui, il Bomba ovviamente non avrebbe mai mollato la poltrona, ma avendo il vizio di spararla grossa, prima del voto aveva giurato davanti alle telecamere che si sarebbe levato di torno in caso di bocciatura. Nessuno immaginava che una volta sollevate le terga da li le avrebbe incolla te poco più in là sulla poltrona di segretario del partito, ma questo e cio che e successo. Da capo del Pd, dunque, Renzi ha preparato le liste per le elezioniriempiendole di fedelissimi, mettendo insieme un esercito di pretoriani pronto a seguirlo anche alfinferno. E qui veniamo al problema di Zingaretti, il quale pur essendo uflicialmente succeduto a Renzi continua a essere accerchiato dai renziani, che in Parlamento eseguono gli ordini del suo predecessore più che i suoi. Cosi arriviamo al suicidio del fratello sfortunato del commissario Montalbano. Crazie al voto degli elettori Pd, Zingaretti ha conquistato la segreteria nonostante Renzi gli abbia teso ogni tranello. Tuttavia, avere vinto nelle sezioni non significa aver ottenuto la vittoria in Parlamento perché li, grazie a quelli che ha piazzato, non comanda il governatore, ma il Rottamatore, il quale da tre anni le studia tutte pur di potersi riprendere la scena. Ecco, adesso con una capriola degna di Nadia Comaneci, Renzi ha sposato la causa del governo con i 5 stelle avendola osteggiata per un anno e mezzo. Per mesi ha accusato Zingaretti e compagni di t.rescare con i grillini, ma quando si sono profilati lo scioglimento della legislatura e il voto, ha eseguito una piroetta da medaglia di bronzo alle Dlimpiadi. E il povero segretario del Pd? Uno via l’altro si e dovuto ingoiare i rospi che quell’altro gli ha cucinato, a cominciare dal taglio dei parlamentari per finire alla nomina di Conte. anche i sassi sono a conoscenza del fatto che se il governo giallorosso nasce,ilgovernatore muore: non solo perche sarà evidente che la sua opinione conta meno di zero, in quanto il Giglio magico farà cio che più gli aggrada e non cio che dice Zingaretti. Ma poi, una volta nato il governo e salvata la poltrona, per se e per i suoi seguaci, Renzi farà pure il diavolo a quattro per far cadere il governo e prendere ilposto di Conte. Dunque il segretario sarà cornuto e mazziato, perche avrà aiutato il suo avversario a risorgere affossando se stesso e dando un contributo fondamentale anche alla nascita del partito che Renzi si prepara a fondare appena gli tornerà comodo, cioe quando per M55 e Pd le cose si metteranno male. Detto in altre parole, Zingaretti – che aveva interesse ad andare a votare per levarsi di torno le zecche renziane – se fa ilgoverno e un morto (politicamente, oirvio) che cammina. Mentre gli altri, quelli che lo hanno spinto a dire si, daDario Franceschini a Graziano Delrio. da Ettore Rosato e Paola De Micheli lrenziana ballerina) ad Andrea Orlando, e magari ad Emma Bonino, sono poltrone viventi.

La bandiera sventola, è gialla e rossa, la nave governativa sta per levare le ancore. Perché non si muove? Che cos’è quel vociare che sale dalla cambusa? Graziano Delrio, dato per sicuro ministro delle infrastrutture e dei trasporti, si affaccia un momento ricomponendo il ciuffo festoso: «Non ci sono veti. Sugli assetti si vedrà» (Adnkronos delle 17,55). Li chiamano “assetti” queste trattative da falò su certi viali. I Cinque Stelle a furia di mandare affanculo gli altri, hanno imparato il mestiere, e lo vendono, eccome se lo vendono. Hanno messo all’asta il loro famoso tonno. Del-rio-mare si precipita di nuovo prima che gli portino via il bel tocco del suo assetto. Si discute sui bocconi di ventresca, a chi spetti infilare con la forchetta il prelibato tarantello. Ma certo. Litigano per il tonno. Ricordate la scatola che i grillini avrebbero dovuto aprire con la conserva di pesce sott’olio? Dovevano farlo nel 2013. Che tempi, quand’erano verginelle alla fontana, a farsi il bagnetto come Susanna sotto lo sguardo lubrico dei vecchioni. Allora le nostre caste Susanne li respinsero. Non perché non gli andavano benele proposte,main nome di una conclamata verginità elettiva. Era il 10 marzo del 2013. I capigruppo Vito Crimi e Roberta Lombardi si espressero «Nessuna alleanza col Pd». «Nessun referendum sull’alleanza col Pd». Beppe Grillo confermò con risolutezza. «Se il Movimento vota fiducia (a un governo con il Pd), mi ritiro dalla politica» (10 marzo 2013). Un anno primaaveva dettola stessa cosa a Di Pietro: «No ai nuovi colonialisti. Non ci alleeremo con nessun partito» . Ed ecco i vecchioni del Pd sono arrivati coni loro volti suadenti, sono pure parenti di quel figaccione del commissario Montalbano, accompagnati dalle trombe lussuriose di giornali e tivù. PapàBeppe acconsente, ha dettatole nuove tavole della legge, dove vige un solo comandamento, una morale tutta d’un pezzo: «Sopravviviamo-sopravviviamo». Hanno avuto dall’Elevato Pappone la licenza di prostitute senza colpa, per il bene collettivo, e le Cinque Stelle si sono prestate al sacrificio. Ma qui nasce la protesta dei vecchioni: saranno pure stelle, ma si stanno facendo pagare come se ce l’avessero solo loro, il tonno. Mentre sto scrivendo, ma probabilmente quando voi ancora siete intenti a leggere, gli allegri casinisti giallo-rossi stanno spartendosi il diritto di tonno. Piano che ce n’è per tutti. Hanno aperto la meravigliosa scatola da cinque chili, quella che esponevano i droghieri di una volta, con la polpa soda: è l’Italia. Ma con quale coscienza la trattate così?Certola Costituzione lo consente, ma il decoro esigerebbe almeno lafinzione, una sanaipocrisia che è il prezzo che il vizio paga alla virtù, secondo non so se Flaiano, Longanesi o forse Oscar Wilde. SENZA COSCIENZA La scena è abbastanza turpe, infatti è sottocoperta. Diciamo meglio, sotto lenzuola. È uno schifo da baldracche bulgare, come diceva Oriana Fallaci. A chi la prima forchettata? Ma certo a Giuseppe Conte. La seconda?Accidenti, DiMaio vuole anche quella per lui,e purela terza.Vice premier e Viminale. Zingaretti èmolto aspro su questo assetto. «Abbiate un po’ di coscienza, lasciate qualcosa anche a noi. Altrimenti non compriamo il biglietto, non ci accontentiamo della ramazza di mozzi, signor Tonno Nostromo». Ecco, la speranza che la nave non parta, e che anzi il vessillo grillo-zingarettiano sia ammainato, sta tutta nelle voglie esagerate di Di Maio, cheinducano Zingaretti a recedere. Gli diamo ragione, con un bacio in fronte: perdere la faccia va bene, siamo uomini di mondo, ma mollare ai grillini quasi tuttii trecento posti di sotto governo e vero potere da assegnare in primavera, questo è troppo. Insomma, l’unica chance di evitare una crociera disgraziata per l’Italia è che Gigino DiMaio -ingolosito da tante attenzioni per l’Ammiraglio Conte, che vanno da Eugenio Scalfari a Donal Trump, da Civiltà Cattolica all’Eco di Al Azhar – pretenda troppi pennacchi per sé. Ma temiamo sia un’illusione. Un secondo prima che si chiuda il sipario, partiranno a razzo per il Colle a farsi benedire da unMattarella ci auguriamo perlomeno triste. CASTI QUEL CHE COSTI La cronaca diieri si esaurisce così. ll prezzo, il prezzo. La questione è quella. Per questo a mezzogiorno iCinque Stelle come noleggiatori di cammelli si sono ritirati nel caravanserraglio, finché gli acquirenti hanno fatto vedere da lontano il Toblerone, che ha sostituito l’abusata Nutella di Veltroni. Ma sì. Il governo sta nascendo e l’intoppo era solo apparente, era semplicemente il riflesso romano delle abitudine dei bazar levantini, dove per trattare sulla grana ci vuoleil suo tempo. Sappiamo già cosa risponderanno. Come Alessandro Di Battistail 10 novembre dello scorso anno, allorché scrisse: «Le uniche puttane qui sono proprio loro, questi pennivendoli che non si prostituiscono neppure per necessità, ma solo per viltà». Che dire? Benvenuti nel club. Il motto dei grillini era, un secolo fa: casti quel che costi.Addio,figlieimmacolate di Grillo che distribuiva le ostie della sua religione.C’erano un paio di dogmi, ma uno diceva: «Il movimento è nato in reazione al Pd, al loro modo di fare politica,e oggi offre uno stile nuovo». Devono aver aggiornato il kamasutra. Come disse Giuliano Ferrara, che – senza offesa – non a caso è il gran cappellano delBis-conte, comelo chiama lui: «Siamo tutti puttane» o, se fa più fino, escort. E appese mutande ovunque a Roma e a Milano, in piazza Farnese si tinse le labbra di rosso. Era l’estate del 2013. Lo fece per difendere Berlusconi. Scusa, Giuliano: ma vuoi mettere le Olgettine?

L’ennesimo imbroglio ai danni degli italiani che sognavano il voto.

Perfino i ciechi e i sordi, forse anche i deficienti, hanno capito l’antifona: l’erigendo governo obbedisce all’esigenza dievitareelezioni anticipate che sotterrerebbero i grillini nell’indifferenza se non nel disgusto. Essi si presentarono sulla scena politica al grido di vaffanculo e indossarono abiti virginali e ora sfoggiano le nudità delle escort. Sono disposti a tutto, addirittura a prostituirsi, pur di non perderefettuccine di potereeindennitàvarie spettantiai parlamentari. Niente di nuovo e molto di vecchio. La convenienza ispira ogni mossa di questa gentarella avvinta come l’edera ai palazzi della cuccagna. I cittadini onesti che sperano ancora si possa votare sono dei poveri illusi. Il capo dello Stato deve obbligatoriamente tenere conto che, secondo la Costituzione, ha il diritto di governare il gruppo di approfittatori che,mettendoinsiemeicocci dei partiti, riesce ad esprimere una maggioranza, per quanto rivoltante e per nulla coesa. Infatti i leader continuano a litigare, non sui programmi da realizzare, bensì sulla spartizione degli incarichi che li arrapano per motivi di ingordigia. Qualcuno, dicevo, spera in una rottura definitiva traM5S e Pd e cheMattarella si scocci e sciolga le Camere. Sognare non è vietato, ma non vale la pena. Non è il popolo che può cambiare la realtà, è il popolo che ad essa deve adattarsi. E la realtà è che onorevoli e senatori sono affezionati al loro ruolo e piuttosto che andare a casa sono disposti a tutto, anche a rimediare una figura di merda. I pentastellati fanno le bizze perché pretendonola conferma diConte alla presidenza del Consiglio, mentre i dem insistono per avere un premier di maggior peso intellettuale, e non hanno torto. Ma queste sono inezie, diversivi che saranno superatigrazie alla smania di varare un esecutivo che castighi Salvini, condannandolo allamarginalità chelui stesso ha scelto in un impeto di stupidità tattica e strategica. Pur di far secco il capo della Lega, i suoi avversari ed ex soci sono pronti a strozzarsi con la cravatta. Buona morte a tutti. L’importante è che gli italiani siano in grado di sopravvivere e di respingere conforzal’ennesimoimbroglio di cui sono vittime innocenti.

Salvini capitano? Sì, ma non del Titanic. Se come pare chiaro il governo tra Pd e Cinque Stelle vedrà la luce oggi si mette fine all’anomalia di un governo a trazione di sinistra, quale è stato il Di Maio-Salvini, sostenuto convintamente da un partito di centrodestra (la Lega) che nelle urne si appropriò, per via del sistema maggioritario, anche dei voti di elettori «alleati» di Forza Italia e di Fratelli d’Italia. Dopo un anno di confusione e di patti elettorali traditi torna quindi un po’ di chiarezza. Da una parte c’è ora il blocco di sinistra (Cinque Stelle e Pd) che probabilmente si presenterà in coalizione anche nelle prossime elezioni regionali e comunali, dall’altra i componenti del vecchio centrodestra (Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia). Un nuovo bipolarismo, insomma, che costringerà i vari attori a mettere fine a una serie di equivoci. Il primo dei quali, almeno per quello che ci riguarda, è se Salvini sarà solo il capo della Lega o può ancora diventare da subito il leader di una coalizione più ampia insieme a Berlusconi e alla Meloni. Il Capitano solitario si è messo nei guai. Se l’alleanza tra Zingaretti e Di Maio diventerà, oltre che di governo, anche politica, per Salvini qualsiasi elezione non sarà una passeggiata, non come poteva apparire fino a ieri. In pratica, nonostante il grande consenso di cui ancora gode, non può sperare di vincere facile da solo contro una alleanza Pd-Cinque Stelle che già oggi supera il 40 per cento. Matteo Salvini deve quindi decidere se dopo aver chiuso i porti vorrà chiudere anche la porta di una alternativa alla sinistra-sinistra. Né può pensare, dopo i casini che ha combinato, di tornare con i suoi vecchi alleati cavandosela con una pacca sulle spalle, tantomeno concedendo loro una «annessione alla Lega» come ha fatto balenare nelle scorse settimane. Salvini resta l’uomo forte del centrodestra, ma la sua ricetta, come dimostrano i fatti di queste ore, non (…) funziona (è riuscito ad attirarsi a furia di errori madornali anche le ire del suo presunto amico Trump). A tal proposito, Berlusconi da qualche giorno va dicendo una cosa apparentemente assurda: «Sogno il ritorno di un centrodestra che abbia come perno Forza Italia». Assurda perché la Lega veleggia sopra il 30 per cento e Forza Italia arranca sotto il 10. In realtà, penso che Berlusconi non si riferisca ai numeri che ben conosce, ma alla rotta che la nave del centrodestra, a prescindere dai rapporti di forza interni, deve avere. In sintesi mi pare di capire che Forza Italia non sia più disposta a salire a bordo di un Titanic (la Lega di Salvini), bello da vedere ma in realtà fragile e il cui Capitano, per stareinmetafora, si schiantò contro un iceberg per irruenza e imperizia. Fino aieri erano Berlusconi elaMeloni che bussavano alla porta – mai aperta – di Salvini. Da oggi non sarei più sicuro che il corteggiamento continui con le stesse modalità. Se Salvini avrà l’umiltà di fare il percorso inverso rinunciando ai suoi eccessi, e al suo andare sempre contro tutti, a sfidare l’Europa a prescindere dalla logica, il centrodestra rimarrà vivo e competitivo. Altrimenti, addio alleanza e liberi tutti. Ma per liberarci della sinistra al governo, non ci resterà che aspettare un Capitano che oltre il coraggio dimostri di essere lungimirante e affidabile con il Paese e con gli alleati come a suo tempo lo fu Berlusconi. E a quel punto, auguri Capitano.