Una partita di fatto obbligata. È quella che nelle prossime settimane un nuovo Governo dovrà giocare con la commissione Ue per sostenere la complessa manovra economica 2020. Che, senza più l’ipoteca “flat tax” targata Lega, si dovrebbe attestare tra i 30 e i 35 miliardi, compresi i 23,1 miliardi necessari per evitare gli aumenti dell’Iva e i 4-5 miliardi per spese indifferibili e rifinanziamenti obbligati. Riempire questo bacino sarà un’impresa tutt’altro che facile. Anche per questo motivo, pur senza ammetterlo ufficialmente, i possibili protagonisti di un esecutivo giallo-rosso sperano tutti di ottenere da Bruxelles l’ok a una nuova tranche di flessibilità di 0,4-0,5 punti di Pil da sommare alla quota dello 0,18% di Prodotto interno per interventi contro il dissesto idrogeologico e il Ponte Morandi di Genova già utilizzata quest’anno e messa in conto per il prossimo dall’ultimo Def. In tutto si tratterebbe di 10-12 miliardi, più o meno un terzo delle coperture per la prossima legge di bilancio. La manovra, secondo un primo schema abbozzato nei confronti tecnici da Pd e M5S, dovrà contenere un taglio al cuneo da almeno 4-5 miliardi, magari anche con la funzione di allargare la platea dei lavoratori beneficiari del bonus 80 euro e prevedere una forte spinta agli investimenti “Green” e a quelli destinati al Sud, senza trascurare le infrastrutture. Del resto, l’operazione “cuneo” dovrà alleggerire le imprese, e al tempo stesso aumentare le buste paga dei lavoratori. Molta attenzione verrebbe poi data alla formazione, soprattutto continua, e alla scuola. Resterà in vigore il reddito di cittadinanza, magari con un rafforzamento delle misure di politica attiva per incentivare di più, e meglio, il raccordo con il mondo del lavoro; mentre, con tutta probabilità, ci sarà un’ampia rivisitazione di quota 100, che dovrebbe esaurirsi nel 2021 e lasciare il posto ad altri strumenti, come ad esempio l’Ape social rafforzata. Quasi certe alcune correzioni al Jobs act, soprattutto sul versante crisi aziendali. Attualmente al Mise sono aperti oltre 150 tavoli relativi a grandi aziende che interessano più di 200mila lavoratori. Qui, tra le ipotesi su cui si starebbe ragionando, accanto al potenziamento delle politiche, è un irrobustimento dei sussidi, Cigs in testa (ridotta dalla riforma del 2015) ma che, a oggi, con l’esaurirsi della mobilità, rappresenta l’unico strumento di sostegno prima della perdita del posto di lavoro. La flessibilità Ue è insomma indispensabile. E le chance di successo per il Governo italiano sarebbero tutt’altro che limitate, per due motivi. Il primo è rappresentato dai conti sostanzialmente in ordine lasciati dal primo esecutivo Conte anche attraverso l’aggiustamento di luglio (come ha ricordato lo stesso ministro uscente Giovanni Tria) grazie al quale il deficit 2019 è sceso attorno al 2 % dal 2,4% indicato nel Def. E a fine anno potrebbe toccare quota 1,9% per effetto dei risparmi finali di quota 100 e reddito di cittadinanza e alle maggiori entrate fiscali a consuntivo. Senza dimenticare la spesa per interessi che risulterà più bassa rispetto alle previsioni iniziali. L’effetto trascinamento delle misure adottate a luglio, insieme alla quantificazione delle minori spese per il prossimo anno(sempre dal “welfare”), delle maggiori entrate e delle uscite più contenute per gli interessi sul debito garantiranno una “dote” di circa 8 miliardi per il 2020 con una contemporanea riduzione dell’indebitamento, attualmente previsto al 2,1%. Da qui partirà la costruzione della manovra che verrà puntellata con la probabile rimodulazione di quota 100 (possibile minor spesa di quasi 4 miliardi) e un mix di spending review e riordino dei bonus fiscali. Il secondo fattore che può favorire l’uso di deficit aggiuntivo è da ricercare nell’approccio della Ue che comincia ad apparire meno rigido. La recessione che si sta incuneando nell’Europa e il rallentamento dell’economia tedesca starebbero inducendo Bruxelles a dare un’interpretazione più elastica degli attuali vincoli sui conti pubblici, in attesa magari di una riscrittura del Patto di stabilità e crescita in versione più soft.

I l G7 di Biarritz, comunque vogliamo metterlo, difficilmente passerà alla Storia come un evento memorabile per l’Italia. Ci siamo arrivati nelle condizioni peggiori, ossia una crisi di governo che ha rimarcato la nostra tradizionale instabilità, e quindi non sarebbe giusto scaricare la responsabilità sul premier dimissionario, o sulla macchina diplomatica costretta a gestire una situazione assai difficile in un vertice segnato dalle divisioni. Però i fatti sono testardi. Conte è stato l’unico leader del G7 con cui Trump non ha previsto un bilaterale formale. Il ministro degli Esteri iraniano Zarif, grande sorpresa del vertice e ambiziosa mossa diplomatica di Macron, ha sottolineato via Twitter di aver visto l’ospite francese e condotto un briefing con britannici e tedeschi, dimenticando noi, che pure abbiamo enormi interessi nel suo paese. Non abbiamo partecipato alla conferenza sul Sahel, cioè la principale regione di transito dei migranti, nonostante la retorica prevalente in Italia sia che dovremmo aiutarli a casa loro. Trump ha discusso di Libia nei bilaterali con Macron e Merkel. Eravamo al G7 per eredità, ma l’impressione è che anche le questioni più vicine a noi vengano decise dagli altri, salvo poi assegnarci qualche compito di aiuto. Le crisi di governo accadono pure negli altri paesi e hanno una funzione nelle democrazie, ma la percezione è che il problema sia più profondo e duraturo. Le responsabilità hanno molti padri e vengono da lontano, perché a suo tempo non entrammo nel 5+1, mentre sul Sahel siamo fuori dal G5. Ma se le radici del declino sono profonde, a maggior ragione i nostri leader dovrebbero analizzarle con serietà per trovare i rimedi, mentre tutto ciò che abbiamo fatto ultimamente sono state aperture un po’ avventate a Cina e Russia, urtando i tradizionali alleati americani. Chi dice che i dazi a Pechino o la stessa Brexit sono problemi lontani, dovrebbe misurare i punti di pil che ci faranno perdere, oltre ai rischi geopolitici che rievocano gli spettri di scontri militari. Quanto all’euro, il nostro unico vero obiettivo pare quello di poter tornare a svalutare la liretta, per incapacità genetica di comportarci da persone credibili, ignorando quanto nel frattempo sia cambiato il mondo, dove un paese diviso e formalmente ancora in guerra come la Corea del Sud ha quasi raggiunto il nostro pil. L’ondata sovranista degli ultimi anni ha motivazioni profonde che andrebbero affrontate con soluzioni concrete, come la crisi economica più dura e lunga in Italia che altrove, le diseguaglianze, il fenomeno epocale delle migrazioni. Siamo da decenni un paese a crescita demografica negativa e sarebbe ora di chiederci il perché. Quando però l’ondata sovranista sarà passata, ammesso che nel frattempo non faccia danni irreparabili, la globalizzazione sarà ancora qui. Non perché l’hanno voluta sinistri banchieri o imprenditori egoisti, ma perché sta nelle cose, grazie agli spettacolari progressi dell’umanità su temi come le comunicazioni, i trasporti, la riduzioni della povertà. Davvero crediamo di poter continuare a prosperare nell’isolamento, o grazie alla nuova Via della Seta? La speranza è che i leader del prossimo governo abbiano ben chiara questa emergenza, altrimenti il declino a cui ci stiamo destinando diventerà irreversibile. Da qui la necessità che l’Italia rifletta, tutti insieme, sul declassamento globale a cui ci stiamo condannando, e sui danni che ciò comporta per le prospettive presenti e future del nostro Paese.

Le regole europee sui conti pubblici non hanno funzionato e vanno cambiate. Il ragionamento che spesso risuona in molte capitali dell’Unione – Roma in primis – circola ormai con insistenza anche nei corridoi dei palazzi di Bruxelles. E la nuova legislatura sarà teatro del dibattito che accompagnerà la riscrittura delle norme di bilancio. Accuse incrociate A sostenere la necessità di cambiare il Patto di Stabilità e Crescita è un documento tecnico preparato dai servizi della Commissione. Non c’è ancora un piano concreto, visto che la direzione di marcia da intraprendere andrà discussa politicamente sia all’interno del nuovo esecutivo Ue, sia tra i governi dell’Eurozona. Ma la proposta nasce dopo un’analisi della situazione da cui emerge una doppia critica. Per alcuni Paesi (soprattutto nel Nord del Continente) le regole di bilancio sono sbagliate perché non impongono ai Paesi altamente indebitati la necessaria disciplina. E soprattutto perché l’elevato margine di discrezionalità attribuito dalle norme alla Commissione ha di fatto impedito le sanzioni anche in caso di violazione (la procedura sul debito evitata per ben due volte dall’Italia nell’ultimo anno ne è un esempio). Ma il punto di vista dei Paesi con alto debito (come l’Italia) è diametralmente opposto: gli Stati dell’Europa meridionale considerano infatti troppo asfissianti i paletti fissati dalle regole Ue, specialmente nei periodi di rallentamento dell’economia. Un elemento che è riportato anche nell’analisi effettuata dai servizi della Commissione. «Per trovare una via d’uscita – confida un funzionario Ue – servirebbero target meno severi, ma applicati con maggiore rigidità». Un altro aspetto su cui si concentrano le analisi degli esperti riguarda la tempistica degli obiettivi di bilancio: anziché fissare target annuali, che vengono ignorati senza grandi conseguenze, la stessa fonte spiega che sarebbe più utile fissare e concordare con i governi di piani di bilancio pluriennali. La prudenza di Ursula I contenuti del documento – ancora molto generico – sono stati svelati ieri con grande enfasi dal Financial Times e l’entourage di Ursula von der Leyen si è subito affrettato a prenderne le distanze. La portavoce della Commissione ha liquidato il «paper» come un semplice documento di riflessione che «ha zero credibilità» perché non è stato «né visto né avallato» dall’attuale esecutivo Ue e nemmeno dalla presidente eletta. Una presa di distanza tanto netta quanto inusuale, finalizzata a smarcarsi da un progetto che al momento non figura nella lista delle priorità della donna che prenderà il posto di Jean-Claude Juncker. Ma la semplice esistenza di questo documento dimostra che le critiche dei governi sono condivise dagli stessi funzionari della Commissione e dunque sarà impossibile ignorarle. Lo scontro Nord-Sud Senza un’iniziativa di Bruxelles, inoltre, diverse capitali sono già pronte a farsi avanti per mettere sul tavolo proposte di revisione delle regole. Con l’inevitabile scontro tra falchi e colombe. Giovanni Tria, ministro dell’Economia, in un’intervista con La Stampa a luglio aveva svelato la sua intenzione di lavorare un piano con Francia e Spagna proprio per cambiare le norme europee sui conti pubblici. Un progetto che puntava a coinvolgere anche la Germania, il Paese ago della bilancia negli equilibri europei. L’iniziativa potrebbe essere ereditata dal suo successore, chiunque esso sia, visto che si tratta di un tema molto sensibile in Italia, a prescindere dal colore politico del governo.

F orse albeggia dopo la lunga notte alcolica del Papeete. In un lunedì mattina di fine estate – fine dei balli dell’ascella e del mojito e spento il rap del tiro dritto e del cuore immacolato di Maria, finalmente fine, forse – ci si risveglia con una lunga intervista concessa da Urbano Cairo a Annalisa Chirico sul Foglio aperta da una confessione: al momento non sono sfiorato dall’idea della politica. Traduzione, secondo la prima regola della politologia all’italiana: sono molto preso dall’idea della politica, soltanto che debbo calcolare bene i tempi. E però qui ci sono già due problemi. Primo, la si sta subito buttando sul retroscena a poderosi raggi X, e poi le concrete intenzione del presidente del Toro (carica principale, seguono editore del Corriere della Sera, de La7 e parecchio altro) non sono nemmeno così cruciali. E’ cruciale che ci si svegli un lunedì mattina di fine estate e si riscopra la possibilità di ambire a cariche pubbliche e apicali con un programma il cui titolo non sia Abracadabra. Cioè, per esempio, un esempio fra mille, i Cinque stelle e Virginia Raggi affascinarono alcuni eruditissimi editorialisti del Corriere di Cairo dicendo: e che ci vuole? Basta recuperare un miliardino di euro di sprechi e in sei mesi si aggiustano i conti di Roma. Sono anni – lustri! – che si va avanti a ravanare nel cilindro, a promettere il prodigio a portata di mano: che ci vuole? Abracadabra: abolita la povertà. Abracadabra: fermata l’immigrazione. Abracadabra: spazzata la corruzione. E poi una mattina di fine estate ci si risveglia su una lunga intervista in cui Cairo spiega (mettiamola così) di non avere intenzione di fare politica ma se gli venisse ecco come la fonderebbe: non è un anno bellissimo, è un anno tremendo, «il momento è complicato, l’economia è in stagnazione, spirano venti di recessione a livello globale, dobbiamo rimboccarci le maniche e lavorare sodo». Lavorare sodo? Ma non era questione – abracadabra – di redistribuire le ricchezze nascoste sotto la mattonella dalle élite pluto giudaico massoniche? E il reddito di cittadinanza? «Non scherziamo» dice Cairo, «è un incentivo a non fare o a fare nel sommerso». E quota cento? «Un’agenda economica seria non dovrebbe partire dai sussidi né da provvedimenti che mirano a mandare prima la gente in pensione». Oggi serve l’esatto opposto, continua Cairo, la sicurezza è un valore per piagnini, «le persone vanno spronate a mettersi in gioco e a rischiare, anche se non possono scegliere l’impiego dei loro sogni». E dunque ci si sveglia una mattina eccetera e si scopre che la politica, eccolo il vero prodigio, potrebbe ripartire dall’ipotesi di dire quello che non ci si vuole sentir dire: non ci sono complotti, non ci sono caste voraci che vi mangiano sulla testa, non siete stati turlupinati, non ci sono doppifondi nel pavimento con dentro il gruzzolo, i quattrini non pioveranno sul vostro divano per diritto divino, qui si è tutti campati un po’ allegramente e al di sopra delle nostre possibilità, si è fatta notte cantando e incrociando i bicchieri: albeggia, tocca prendere un’aspirina, farsi una giornata a caffè e acqua e tornare al lavoro. Piuttosto solleva stupore che un ragionamento del genere sgorghi da un imprenditore così dentro il suo tempo – lui scansa ma pure il suo Corriere (come altri giornali) e la sua tv hanno dedicato attenzioni particolarmente generose ai bamboccini sbucati al governo da una scatola del Piccolo Mago. Adesso i bamboccini li liquida, nemmeno ci spreca troppe righe, Matteo Salvini è uno buono soltanto a condurre campagne elettorali, Luigi Di Maio nemmeno quelle, l’incompetenza è incompetenza, non è purezza. Eppure un uomo così dentro il suo tempo, e così dichiaratamente – almeno in questo molto berlusconiano – concavo coi convessi e convesso coi concavi, esce dal suo tempo e si figura una leadership, per quanto ipotetica, senza promesse da bianco natale. Una politica dell’immigrazione, dice, «concepita senza o contro l’Europa è destinata a fallire», e non perché siamo prigionieri di un’Unione di bancari e speculatori, ma perché «l’Italia non va da nessuna parte se non capisce che viviamo in un mondo interconnesso», aggettivo quest’ultimo già più gradevole di «globale», ma il succo quello è. Non ci piace essere globalizzati? Pazienza, lo siamo lo stesso e ci si deve fare i conti. Sfida la lagna sonnolenta ed equivoca dei nemici conformisti del politicamente corretto e tale si dichiara: «Per carattere tendo al politicamente corretto, sono un moderato delle parole: lo considero un segno di rispetto verso il prossimo», se non altro (si suppone) perché una sciocchezza è una sciocchezza, ma se è urlata la si sente di più. E, infine, lo si bacerebbe in fronte anche solo per questo, Cairo si gioca l’intera intervista senza impigliarsi nel passatempo scemo e pigro dei fascisti e dei comunisti, della destra e della sinistra, siccome sa che qui la partita è un’altra: essere per la democrazia liberale e rappresentativa contro la democrazia illiberale e plebiscitaria. Poi, che ci si riesca è un altro discorso. Che ci provi Cairo è un altro ancora. Che si lo si ricominci a dire, senza curarsi del sondaggio di domattina, è una magnifica notizia.

Dice e non dice, afferma e poi nega, ammicca, ma Urbano Cairo, il patron di «La 7» e del «Corriere della Sera», nonché proprietario del «Torino calcio», sta pensando seriamente di scendere in politica. Con una lunga intervista al «Foglio» ha espresso il suo programma politico, che si può considerare di schietto liberalismo. Esplicitamente anti-populista. Europeista con il cuore verso Francia e Germania. Se andasse lui al governo, addio al reddito di cittadinanza e alla Quota 100. «All’Italia oggi serve l’esatto opposto: le persone vanno spronate a mettersi in gioco e a rischiare, anche se non possono scegliere l’impiego dei loro sogni». La tentazione di farsi un partito, insomma, c’è. «Non nascondo che ricevo numerose sollecitazioni… In tanti mi chiamano e mi dicono: ma quando ti decidi? E’ venuto il tuo momento». I sismografi della politica ieri hanno registrato anche questa. Cairo, però, è soltanto l’ultimo di una lunga lista che guarda a quell’area, apparentemente sguarnita, che un tempo si sarebbe detta di Centro, o moderata, o liberal-democratica. La stessa area, per dire, dove pesca l’insuperabile modello di Cairo, quel Silvio Berlusconi che al giovane Urbano diede lavoro appena uscì dall’università. Forza Italia non è morta, anzi. In fondo è la stessa prateria dove spera di galoppare anche Giovanni Toti, leader di «Cambiamo», appena fuoriuscito da Forza Italia. Il quale ha subito annusato il pericolo di una competizione fratricida: «L’Italia – dice – a mio avviso ha bisogno di semplificazione della politica, non di ulteriore confusione. Il centro-destra deve ridisegnare i propri confini e le proprie ricette, irrobustendo quell’ala liberale e riformista che oggi fatica a far sentire la propria voce». Un altro che guarda a quell’area è Stefano Parisi. Tre anni fa sembrava dover essere lui il cavaliere bianco che avrebbe risollevato il centrodestra con il suo partito «Energie per l’Italia». La montagna ha poi partorito un topolino. Così come, giusto per rinfrescare i ricordi, è andata con i partiti fondati da Luca Montezemolo («Italia futura») o Corrado Passera («Italia unica»). Ora c’è anche Flavio Biatore a sognare. Ha appena lanciato un suo personale partito, il «Movimento del Fare», che «sarà formato da persone e personalità che metteranno la loro esperienza e le loro competenze a disposizione degli Italiani». E naturalmente non si può dimenticare che dal Pd è quasi in uscita Carlo Calenda. Lo aveva annunciato, se fosse andato avanti il dialogo con il M5S. Non ha nemmeno partecipato alla Direzione dem che ha rovesciato i dogmi di quel partito. Calenda da settimane minaccia di fare un altro partito perché una coalizione con i grillini avrebbe significato, ai suoi occhi, che «il Pd avrà definitivamente abdicato alla rappresentanza del mondo liberaldemocratico. Io questa cosa non la accetterò. E a quel punto sarà inevitabile lavorare a una nuova forza politica che rappresenti quel mondo orfano». Morale: sembra proprio che avesse ragione uno che di politica indubbiamente ne capisce, come Matteo Renzi. Anche lui ha un progetto di nuovo partito nel cassetto, ma rinvia puntualmente il D-Day perché non è ancora convinto del gran passo. E infatti diceva, a questo giornale, qualche settimana fa: «Di sicuro nascerà una forza di Centro, su questo non ci sono dubbi. Anzi, magari ne nascerà più d’una. Il problema casomai è se ne riesce a nascere davvero una seria, fatta bene».

L’intervista a Pier Ferdinando Casini.

Pierferdinando Casini, lei che di centrismo se ne intende, si sarà fatto un’idea sul manifesto politico di Urbano Cairo. «Premesso che conosco e stimo Cairo, è poi possibile che l’uomo non si presenti alle elezioni. Dipende anche dai tempi, perché non ci si butta mica dal quinto piano senza paracadute, ma il manifesto politico l’ha lanciato, eccome. E siccome Cairo è uomo di comunicazione, sa che, al di là dei contenuti, il fatto stesso di avere concesso una intervista del genere è una notizia. Sì, possiamo dire che da oggi ha fatto la sua discesa in campo. E mi si lasci dire che è anche una cosa bella, vedere un uomo che s’è fatto da solo e sente una vocazione per il suo Paese. Qui da noi, magari genera scandalo la discesa in campo di un imprenditore. Ma io ricordo bene altri tempi,quandocominciaiafarepolitica, e che cosa erano i poteri forti. Penso alla Montedison di Schimberni, ai Gardini, ad Agnelli. I poteri forti all’epoca davverousavanolapoliticacome un taxi. Oggi i poteri forti non esistono più e semmai gli imprenditori si espongono in primapersona». Il manifesto politico di Cairo, come lo definisce lei, è innanzitutto un orgoglioso rilancio dei capisaldi liberal-democratici in tempi di populismo. Non la meraviglia vedere quanto sia sguarnita quell’area e quanti invece si candidano a rappresentarla, Renzi e Calenda compresi? «Verissimo che l’area un tempo detta di Centro, o liberal-democratica, o moderata (ma moderato non significa pusillanimeoambiguo,quanto tenace ricercatore di soluzioni), è totalmente sguarnita. Effetto di anni di demolizionedellacompetenzaedella politica professionale. Che poi,fatemelodire,sonoipolitici di professione quelli che salvano il Paese da decisioni sgradite nei consessi internazionali. E i politici incompetenti sono quelli che si fanno rideredietroadognilivello». Tornando al paradosso di un’area così sguarnita eppure tanto ambita? «Innanzituttomivienedipensare che la discesa in campo di Cairo sollecita valori di cui troppo poco si parla ormai: sacrificio, professionalità, competenza. Parole d’ordine che sembravano scomparse dall’agenda. E’ importante tornare alla competenza. D’altra parte, guardate i giovanotti che sono al governo: ci sono arrivati facendo la lotta ai vaccini, ma poi si sono resi conto che i vaccini sono indispensabili e hanno fatto vaccinare i loro figli. Per fortuna, aggiungo io. In fondo, Cairo non inventa nulla.Anchequellasottolineatura che lui non si considera erede di Berlusconi… Ovvia. Cairo non è un suo replicante. E poi quell’eredità già non esistepiù». Previsioni? «L’area di Centro è lì, ma nessuno oggi la presidia. Le voci di Forza Italia, tolto Brunetta e la Carfagna, sono più salviniane di Salvini stesso; Forza Italia è già fuori dal perimetro moderato. Dall’altra parte, un tempo c’era Renzi, ma ora c’è Nicola Zingaretti che viene datutt’altra storia.E infatti adesso nasce con il M5S un governo che guarda a sinistra, addirittura con dentro glieredidiLeU.Miauguroanzi che non sia eccessivamentesquilibratoasinistra». Ma lei non pensa che la politica al tempo dei social vada da tutt’altra parte? «Indubbiamente la Bestia è una proiezione dello spirito dei tempi, e non solo in Italia. Ma è anche vero che queste pulsioni si bruciano in tempi velocissimi. E alla fine la gente chiede altro. Non è un caso se la gente guarda a Mattarella. Oppure se il tranquillo Giuseppe Conte sia in cima ai sondaggi di gradimento. Prima o poi, finirà anche il primitivismo della stessa Rete. Sta già capitando. I demolitori professionali ormai lasciano il tempochetrovano».

 

Se alla fine il matrimonio Pd-Cinque stelle si consumerà, chissà che fatica sarà per il deputato Pd Filippo Sensi votare la fiducia a Giuseppe Conte. Costretto a pigiare il bottone del sì per lo stesso premier che, per i 14 mesi di governo gialloverde, ha irriso chiamandolo “Coso”: «Coso che dice ai giornalisti “sono io la massima autorità di governo” mi sembro io e gli “stasera non esci” a Camilla», cioè la figlia; «Ma quindi mi nasce la lista Coso?»; «Certo la perfidia, poro Coso, il giorno del compleanno», il commento nella serata in cui Salvini metteva fine al governo. Fosse però un problema solo di Sensi: il fatto è che, fino a tre settimane fa, nemici giurati del Pd non sono stati solo Matteo Salvini e l’ormai quasi alleato Luigi Di Maio – come si cambia – ma pure l’«azzimato Conte» (copyright Andrea Orlando). «La conferenza stampa di Conte segna oggi una figuraccia per le istituzioni e per Palazzo Chigi – scrive Renzi nel giorno d’inizio estate in cui il premier tenta un chiarimento pubblico con i vice – un premier che non decide, non conta, non governa», fustiga via Facebook il senatore di Firenze. Un capo di governo, aggiunge in un’altra occasione, «semplicemente imbarazzante», giudizio lapidario consegnato all’immortalità del web il 7 agosto, alla vigilia della crisi di governo: sì e no venti giorni fa. Ma era un’altra era geologica, come quando il senatore renziano Francesco Bonifazi – era febbraio e si discuteva del voto sull’immunità per il ministro dell’Interno – commentava che «alla fine la colpa sembra non essere di Salvini ma del povero Giuseppe Conte, che da burattino diventa scudo umano». O, ancora, quando la senatrice Simona Malpezzi cercava di colpirlo pure sui fondamentali: «Ma che razza di uomo di legge sei?». È lo stesso Giuseppe Conte che il Pd voleva mettere sulla graticola per il curriculum e il presunto conflitto di interesse in un concorso universitario: a quei tempi, lanciavano l’hashtag “#concorsopoli” e gli chiedevano di riferire in Aula. Acqua passata. Non è più tempo di rinfacciargli di essere «solo chiacchiere e distintivo» (Andrea Marcucci), o addirittura di lamentare, come ha fatto Michele Anzaldi, «la funzione istituzionale del presidente del consiglio trasformata in burattino in mano a Casalino», il potente portavoce prestato dal M5S: ora, con lui toccherà confrontarsi tutti i giorni. Bisognerà trovare un equilibrio, avere fiducia, difendere in pubblico il premier che fino a pochi giorni fa si riteneva «imbarazzante», mica come quando il capogruppo alla Camera Graziano Delrio lo invitava ad avere «l’umiltà di studiare». All’indomani di un tentativo di ultimatum di Conte ai suoi vice, la renzianissima vicepresidente del Pd Anna Ascani lo strigliava: «Avrà la dignità di dimettersi?». Ora l’ha fatto. Per tornare dritto dritto a Palazzo Chigi coi voti del Pd.

Intanto il coraggio, che non gli è mai mancato e che ha sfoderato ai tempi della difficile scalata del Pd (e poi di palazzo Chigi…). Quindi la spregiudicatezza, che magari in politica va considerata una qualità, come potrebbe confermare anche la conclusione di questa crisi. Infine il cinismo, che lo spinge sempre a pensare prima di tutto al proprio interesse politico: e che forse è la miglior chiave di lettura per questa “campagna d’agosto” dalla quale lui esce come sicuro vincitore. La golden share Perché si, Matteo Renzi ha vinto, riuscendo ad imporre – prima di tutto al suo partito ed al suo segretario – la nascita di un governo che gli darà il tempo sufficiente per render plausibile una scissione mai smentita e del quale, in tutta evidenza, detiene la golden share: va avanti o cade, insomma, a seconda della sua volontà. Renzi è dunque il vincitore: che risulti tale anche il Pd, è cosa che si vedrà… Sono diversi gli elementi che hanno portato a un risultato al quale – inizialmente – credeva solo l’ex presidente del Consiglio. Il primo sta certamente negli ondeggiamenti e nella debolezza della leadership di Nicola Zingaretti, che si trova ora a gestire una fase (ed un governo) che non avrebbe mai aperto. Quando ha capito che la sua stessa maggioranza si stava lasciando incantare dalle sirene renziane, avrebbe avuto una sola strada da percorrere, le dimissioni: non se l’è sentita, e vedremo nei prossimi mesi il risultato di una tale scelta. Il secondo risiede in un’altra evidente debolezza, quella di Luigi Di Maio e del Movimento Cinquestelle, svuotati di consenso e poi abbandonati su un marciapiede da Matteo Salvini: costretti dall’iniziativa di Renzi a scegliere tra una emorragia elettorale ed il patto col più avversato dei nemici, hanno deciso di imboccare la seconda strada. Non è stata una scelta facile, con la base in rivolta, il tandem Di Battista-Paragone a sparare sul quartier generale e molti dei leader del Movimento (a partire, forse, dallo stesso Casaleggio) assai dubbiosi sulla via da imboccare. Lo stesso Luigi Di Maio, naturalmente preoccupato per il proprio destino personale, ha giocato diverse parti in commedia, prima cercando di capire se fosse concreta l’ipotesi di una sua premiership e poi di valutare la sua collocazione nell’ipotesi di un Conte 2. Non a caso, la fase finale delle trattative è stata assai convulsa, proprio in ragione di un certo nervosismo del capo politico del Movimento che, tutto a un tratto, ha realizzato che la contemporanea presenza nell’esecutivo sua e di Conte poteva risultare realmente indigeribile per Zingaretti ed il Pd. Matteo Renzi ha seguito la complicata trattativa attraverso le sue “quinte colonne” (Marcucci e Ascani prima di tutto) con l’atteggiamento del gatto che si lecca i baffi. Giorno dopo giorno ha assistito al lento mutare dei rapporti di forza prima nel Pd e poi intorno all’ipotesi di un patto di governo che pareva fantascienza. Nel giorno delle dimissioni di Conte, si è addirittura preso la scena al Senato, parlando dopo il premier e Salvini, e mostrando – plasticamente – chi era che dava le carte. La road map Un’analisi oggettiva dello svolgimento di questa crisi, porterebbe a dire che Matteo Renzi non ha commesso alcun errore: adesso, infatti, è nella posizione di chi può rivendicare la nascita del governo per poi affondarlo – quando lo riterrà utile – con un motivo qualunque. I più maliziosi (ma anche I più informati) giurano che l’ex premier abbia già pronta la sua road map: riunione alla Leopolda dal 18 al 20 ottobre, trasformazione dei suoi “comitati civici” in partito, scissione, crisi di governo ed elezioni in primavera col suo nuovo partito. In questa road map il Pd è un estraneo. O forse addirittura un nemico: più o meno come in questi velenosi giorni di crisi.

Si sono seduti allo stesso tavolo, si sono guardati negli occhi, qualche sorriso, una battuta per scongelare la prima volta, e si sono detti: allora lo facciamo davvero? Il primo premier della storia italiana che ha guidato un governo con l’estrema destra, si è accomodato di fronte al leader del primo partito di sinistra. Giuseppe Conte e Nicola Zingaretti avranno tempo di conoscersi, se il corteggiamento diventerà matrimonio, ma ora hanno un ultimo miglio da compiere, ben sapendo che tutto può collassare prima che il patto sia siglato. Il quadro è ancora scomposto da veti e contro-veti, dalle ultime mosse di tattica esasperata. Conte è intenzionato a fare quello che ha fatto per 14 mesi con i leghisti. Mediare, convincere gli uni e gli altri. Innanzitutto sui vice. Il presidente del Consiglio li vorrebbe a suo fianco, e dal lato Pd vorrebbe Zingaretti. Una soluzione perfetta per Di Maio che spera così di non essere costretto a lasciare Palazzo Chigi. Conte lo chiede al segretario del Pd ma lui fa muro, nonostante le preghiere di un pezzo dei suoi. Ai vertici dem infatti la teoria ieri sera era questa: nessun vice, oppure solo uno ma del Pd, il vicesegretario Andrea Orlando (che in alternativa potrebbe fare il sottosegretario a Chigi). E l’idea che spinge anche Matteo Renzi: un vice forte per controbilanciare Conte. Quando il premier arriva all’incontro a quattro, con Orlando e Di Maio, il premier è appena tornato dal G7 di Biarritz,. Tra la notte di domenica e la mattinata di ieri un contatto telefonico con Zingaretti ha chiarito che lo stop al suo bis era evaporato. Conte non si scompone. E al suo staff chiede di far sapere che questa volta non avrà «un ruolo notarile» come accadde nella fase aurorale del governo gialloverde. «Avrò voce in capitolo su nomi e programmi». Alle 18, mentre Conte stava atterrando a Roma, Zingaretti e Di Maio si vedono. Il capo politico del M5S ha avuto mandato pieno dallo stato maggiore del M5S riunito a casa di Vincenzo Spadafora, con la benedizione di Beppe Grillo, consultato al telefono prima del vertice. Unico contrario, Alessandro Di Battista che sentenzia: «A questo punto meglio tornare con la Lega». Di Maio si reca a Chigi. Ma l’incontro con Zingaretti dura poco. Un pugno di minuti, 25 cronometrati. Il segretario del Pd ha in mano i punti del programma che vuole incisi sulle tavole del governo della discontinuità e della svolta. Ma il cuore del confronto è su altro. Sulla squadra, sui ministri. «Voglio l’Interno» gli dice Di Maio, convinto che dal Viminale siano passate le fortune elettorali di Matteo Salvini e che il ministero sia un’importante crocevia di potere in Italia. Zingaretti reagisce imbarazzato, appesantito da giorni di tormenti, fiaccato dal cedimento su Conte che non può che ammettere quando dice: «Impossibile. Il M5S esprime già il presidente del Consiglio». Ma sul tavolo ci sono tante richieste impossibili. Da una parte e dall’altra. Il Pd chiede per sé Esteri, Interno, Economia, Sviluppo economico, sottosegretario a Palazzo Chigi e il commissario europeo. I 5 Stelle sono disposti a lasciare Mise, Economia ed Esteri. La partita è cominciata. Ma il terreno è fragile, con il futuro che è un’incognita grande quanto tutta la strada fatta per arrivare fin qui: anni di odio reciproco e flirt falliti, per ritrovarsi dove già potevano essere nel 2013. Di Maio sa che chiedere il Viminale è un tentativo quasi senza speranza. Il Pd non lo permetterà. Ma il capo politico vuole far pesare le percentuali in parlamento. La sua strategia però, a sentire chi ha partecipato alla war room del M5S, prevede un piano B. Puntare alla Difesa, in combinato con la carica di vicepremier, o in subordine restare al Lavoro, per mettere in sicurezza gli ultimi passaggi sul reddito di cittadinanza. Le riforme incompiute, abortite dall’esperienza interrotta con la Lega, sono il tema sviscerato dai big grillini nel salone con due grandi finestre al centro di Roma. Con Di Maio, ci sono i capigruppo, Di Battista, Riccardo Fraccaro e Alfonso Bonafede, Paola Taverna e Davide Casaleggio. L’imprenditore custode delle finanze e dei codici del software della piattaforma ha un atteggiamento riluttante ma acconsente. Grillo ha già parlato: vuole andare avanti con il Pd. Fraccaro dice: «Dobbiamo chiudere le nostre riforme, reddito e taglio dei parlamentari». Di Battista avverte lo spettro del fallimento e annusa già aria di scontro. I primi appuntamenti con il destino sono a breve e anche Zingaretti li conosce già: sono l’immunità sull’Ilva e la concessione ad Autostrade.

L’ assedio produce una svolta già domenica sera, quando al Nazareno il segretario comincia a cedere. La diga eretta dal segretario per evitare almeno un Conte bis si sgretola ieri quando di fronte al pressing di tutti i padri nobili, dell’Europa e ai segnali di un placet del Colle, Nicola Zingaretti alza le braccia, «Come si fa a dire di no?». Alza le braccia in segno di resa obtorto collo, anche perché dall’altra parte il suo mentore e principale sostenitore, Paolo Gentiloni, non condivide la scelta, a questo punto obbligata, che il leader ha dovuto prendere interpretando la volontà maggioritaria del partito. Una presa di distanze, quella dell’ex premier, con una ragione tutta politica, in quanto la sua analisi è che questa sia un’operazione fragile politicamente. Convinzione dettata dalla diffidenza estrema verso il mondo pentastellato. Ma a parte il presidente del partito, figura chiave del mondo che ruota attorno a Zingaretti, tutti gli altri big sono schierati: da Franceschini, a Orlando, da Delrio ai renziani doc come Marcucci. Sale renzi, scende il segretario È infatti Renzi, a detta di molti nel Pd, non solo dei suoi sostenitori, ma anche dei suoi detrattori, il vincitore di questo round: non solo per aver aperto la breccia di un accordo con i 5stelle, ma per aver per primo suggerito di non porre veti su Conte. Un Renzi di nuovo sugli scudi, al punto che gli stessi sodali di Zingaretti sono spaventati dall’idea che, passata la buriana, qualcuno possa porre il tema della leadership del Pd per indurre Zingaretti alle dimissioni. O addirittura che sia lo stesso segretario a siglare l’intesa e un minuto dopo a dimettersi in stile Bersani. Uno scenario drammatico, smentito seccamente, che cozza con la piega che prenderanno gli eventi una volta partito il governo giallorosso. Ma che rende bene l’idea del clima plumbeo che avvolge il gruppo dei zingarettiani doc. Il segretario fin da ieri mattina appariva però rilassato e non depresso con i suoi tanti interlocutori e nelle sue varie conversazioni telefoniche. E a parte qualche “impappinatura” davanti le televisioni dopo il summit con Di Maio, che tradiva ombre nei suoi pensieri, riusciva a sfoderare il suo solito sorriso per infondere ottimismo. Due big nella stanza dei bottoni Ma i resoconti di quel primo round col capo Cinque stelle sono tempestosi: Di Maio chiede non solo che vi siano due vicepremier e uno sia grillino, ma di poter assumere lui la guida del Viminale, rivendicando anche la poltrona di commissario Ue per i 5Stelle. Una sequela di pretese che lascia basito Zingaretti che infatti torna al partito e chiede un incontro tra delegazioni: per far capire a Di Maio che Conte «non è qualcuno venuto dalla Luna», ma uomo ormai ascrivibile al Movimento. Alle nove di sera va dunque in scena il braccio di ferro sulla squadra e sulle caselle: e lo scontro più forte è sui ruoli di Zingaretti e Di Maio e sui vicepremier. I grillini ne vogliono due: quello del Pd sarà Orlando, oppure Franceschini, se l’ex guardasigilli ricoprisse il ruolo chiave di sottosegretario alla Presidenza del Consiglio. O viceversa. Zingaretti non vuole entrare nella squadra a nessun titolo. Ma non solo: se Di Maio vuole la conferma per sé, per Bonafede e Fraccaro, Zingaretti rivendica i ministeri chiave: Esteri, Economia, Interni e Sviluppo Economico (che andrebbe alla vicesegretaria Pd Paola De Micheli). Ma la guerra social già imperversa tra i due fronti. Prodromo di ciò che potrà accadere tra qualche tempo per i motivi più disparati. Un cumulo di fattori potrebbe creare la tempesta perfetta, ovvero lo stop delle trattative, drammatizzano il quadro gli uomini di Zingaretti, convinti che Di Maio stia lavorando per far saltare tutto alzando la posta ogni volta. Cosa a cui nessuno crede nei due partiti, dove tutti danno per scontata la partenza di questo governo. Tra mille conflitti, antipasto di quel che verrà.

La crisi ormai praticamente risolta con l’accordo Di Maio-Zingaretti sul bis di Conte, passerà alla storia, non solo come riedizione aggiornata del ribaltone, che dopo la grande vittoria elettorale del 26 maggio manda all’opposizione Salvini, più o meno come Berlusconi, emarginato dal trio D’Alema-Bossi-Buttiglione nel ’94, e premia il grande sconfitto della stessa tornata elettorale, Di Maio, insieme a quello della volta precedente, Renzi.

Ma anche come un esempio di trasformismo, connotato storico della politica italiana che attraversa quasi due secoli e trova sempre modo di rinnovarsi: fino al record attuale di un premier che nel giro di pochi giorni passa dalla guida del governo giallo-verde di destra-destra, caratterizzato dal progressivo cedimento grillino alle imposizioni del Capitano leghista, a uno giallo-rosso, ma più probabilmente rosso e basta, a giudicare dalle indiscrezioni sul programma della coalizione. E dalla competizione stabilitasi tra i due nuovi alleati, per la conquista dell’elettorato di sinistra, smottato dal Pd al Movimento nel tumultuoso bradisismo elettorale dell’anno scorso e ora in via di ripensamento, dopo le molte abiure del capo politico pentastellato in favore dell’ex-alleato Salvini. Sembra quasi di risentire le parole di don Agostino Depretis, l’8 ottobre del 1882 a Stradella: «Se qualcheduno vuole entrare nelle nostre file, se vuole accettare il mio modesto programma, se vuole trasformarsi (ecco il verbo-chiave) e diventare progressista, come posso io respingerlo?». Ma anche senza andare così indietro, ai tempi in cui, tra l’altro, non c’erano ancora partiti strutturati, il suffragio era limitato e i singoli parlamentari di Destra e Sinistra storica avevano più facilità a motivare le migrazioni da uno schieramento all’altro, in cambio di concessioni e promesse clientelari, si può dire che tutta la storia della Prima Repubblica ha radici trasformistiche. Lo stesso funzionamento del partito-stato, la Dc, che nel bene e nel male ne condizionò tutti gli assetti, per quarantotto anni dal 1946 al ’94, era basato sul labile equilibrio congressuale, che ogni otto mesi faceva cadere un governo per riassestare la distribuzione del potere tra le correnti, e ogni due anni sostituiva il leader del partito, grazie allo spostamento di un esiguo gruppetto di titolari di pacchetti di tessere dall’estrema sinistra della destra all’estrema destra della sinistra del partito. Altri tempi, spostamenti millimetrici, studiati dai grandi personaggi del tempo, cavalli di razza come Fanfani e Moro, scafati capicorrente come Piccoli e Bisaglia, giovani (allora) turbolenti come De Mita o Donat Cattin, e accanto a loro, sopra o sotto, secondo le circostanze, il Divo Giulio, il sette volte presidente del consiglio Andreotti, capo di governi centristi, di centrodestra, centrosinistra, pentapartito, unità nazionale, con liberali, socialisti, laici e comunisti alternativamente alleati o messi insieme alla bisogna. E capace, per inciso, di provocare anche una scissione nel Msi post-fascista di Almirante, nel 1977, con la nascita di Democrazia nazionale guidata dal monarchico Alfredo Covelli, come puntello a uno dei suoi esecutivi più traballanti. Dal fascismo alla democrazia Qui va detto necessariamente che Conte, con Andreotti, che ci metteva anni per passare da una formula di governo a un’altra, non c’entra niente. Così come Zingaretti con Togliatti, o Renzi con Moro. In questo senso la crisi che sta per chiudersi, con il più clamoroso capovolgimento di alleanze della storia contemporanea, sarà ricordata anche per il maggior numero di paragoni a sproposito con il passato. Il richiamo alla togliattiana «svolta di Salerno» del ’44, quando il Migliore, nella sanguinosa fase finale della guerra, con il territorio italiano ancora in parte occupato dai fascisti, accettò di trattare con Badoglio, e poi di portare il Pci al governo, per accelerare il passaggio dal fascismo alla democrazia. Oppure il senso di responsabilità di Berlinguer nell’accettare che nel 1976 fosse sempre Andreotti, indigeribile per un gran pezzo di elettorato Pci, e non Moro, a guidare il primo monocolore democristiano sostenuto anche dai comunisti. L’Italia sarà pure un Paese in emergenza cronica, lo sappiamo, ma occorrerà pur fare qualche differenza tra questo momento e le terribili stagioni della guerra, dell’occupazione nazista e del terrorismo. La mezza rivoluzione Complicata quanto si vuole, accompagnata da una sorta di esaurimento della politica dopo un quarto di secolo di transizione, la situazione attuale è il punto di approdo di un viaggio intermittente verso le democrazie maggioritarie dell’Europa occidentale (questo avrebbe voluto diventare la Seconda Repubblica). Seguito da una mezza rivoluzione, finita com’è finita (la Terza Repubblica, modello semi-totalitario basato sulla democrazia diretta senza controlli sulla rete, per fortuna durata solo quattordici mesi) e dalla brusca conversione a «u» che ci riporta alla Prima, o piuttosto alla sua parodia, senza più partiti, leader, spirito costituente, e soprattutto senza riflettere sulle ragioni che ne determinarono il collasso. Chi ha vinto, chi ha perso Tal che, al di là di piccole e grandi convenienze, intuibili fin dall’inizio della crisi, l’8 agosto, ora che la soluzione è stata trovata, con l’imprevedibilità, il gusto della manovra e quella specie di genio italico che tutti i partner stranieri riconoscono alla nostra politica, non solo per disprezzarla, si può provare a descrivere i confini reali dell’operazione Conte-bis: chi l’ha voluta, chi ha vinto e chi ha perso. L’alleanza giallo-rossa nasce frettolosamente e piena di equivoci, spinta dall’Europa intimorita dal boom sovrani sta-populista, dal Quirinale e dal desiderio di sopravvivere di 5 Stelle e Pd. Ha come primo obiettivo di sbarrare la strada a Salvini, ma punta a durare. E a capovolgere, nell’immediato, il risultato che pareva scontato, delle prossime elezioni regionali in Umbria, Toscana e Emilia, a favore del centrodestra a guida leghista vincitore in tutte le consultazioni amministrative dell’ultimo anno e mezzo, o con un’estensione locale della neonata alleanza, o con nuove operazioni trasformistiche basate su liste civiche che mettano insieme in uno stesso contenitore i voti giallo-rossi. Dopo di che si potrà tornare a votare anche per il Parlamento. Ma non prima di aver eletto il successore di Mattarella, nel 2022. Con un candidato già pronto, nel suo stile, da vero padre nobile della nascita del Conte-bis: Romano Prodi, il grande sconfitto di due volte fa nella corsa al Quirinale, in gara per la rivincita.